La cappella che sa fermare il tempo
Inizia con questo numero una nuova rubrica in cui l’architetto svizzero Mario Botta prende in esame alcuni significativi spazi sacri dal Novecento ai giorni nostri.«Il progetto realizza un luogo di preghiera intimamente connesso alla realtà paesaggistica esistente nell’area storica collinare interessata dall’itinerario di pellegrinaggio della Strada Romea…». La descrizione di Paolo Zermani della sua cappella nel bosco a Varano Marchesi, frazione di Medesano (Parma), relaziona strettamente il progetto della cappella-sosta con il contesto. Il bosco, la collina, il ruscello, il percorso di pellegrinaggio, la loro storia diventano elementi strutturali del progetto, che si configura con un semplice muro in laterizio posto parallelamente alla collina, una croce in ferro perpendicolare al muro e una seduta rialzata dal terreno. In realtà il vero spazio creato con questo intervento è il bosco con la sua orografia, la folta vegetazione e la storia di quel sito.
Quando fra i tronchi degli alberi si intravedono i manufatti si resta affascinati dall’intelligenza di quei segni, dalla loro disarmante semplicità, dalla maestria della composizione che, con misura e poesia, configura un vero e proprio ambiente, una stanza a cielo aperto tesa fra la terra del bosco e la sommità degli alberi che bucano il cielo.
Il muro di cotto offre un’ampia superficie e con il vibrare dei mattoni suggerisce la presenza dell’uomo, quasi si trattasse di uno spazio domestico. La croce metallica moltiplica l’immagine delle sue braccia con le ombre proiettate sulla parete o sul suolo dallo scorrere impercettibile del sole. Il viandante è invitato a sostare, a diventare presenza attiva nel teatro della composizione per offrire una misura e una scala di riferimento umane, in quel quadro metafisico giocato fra cultura e natura.
Nella dimensione fragile del nostro vivere, di fronte all’immensità del tempo e dello spazio, l’architetto parla dell’inafferrabilità del sacro dove, come ha osservato Le Corbusier, il fatto architettonico è in grado di «lasciar riaffiorare un’intuizione memore di esperienze acquisite, assimilate, forse dimenticate, che riemergono in una forma incosciente. La bellezza dello spazio è dentro di noi, l’opera può evocarlo ed esso può rivelarsi a coloro che lo meritano, a chi entra in sintonia con il mondo creato dall’opera, un vero altro mondo. Si spalanca allora un’immensa profondità che cancella i muri, scaccia le presenze contingenti, compie il miracolo dello spazio indicibile».
Di fronte alle considerazioni affascinanti del maestro svizzero-francese dobbiamo riconoscere la povertà dei nostri tempi; sempre più rare sono infatti le occasioni di incontrare architetture contemporanee in grado di interpretare (all’interno delle attuali contraddizioni che attanagliano il “fare”) le suggestioni evocate da quello spazio “indicibile”.
La cappella di Zermani è un esempio significativo con un registro espressivo proprio del nostro tempo dell’intensità del dialogo fra architettura e paesaggio. Si riapre così un possibile confronto con il mistero narrato dalla croce e il coinvolgimento emotivo dell’osservatore. La stretta simbiosi con il sito crea una nuova identità che si riappropria della memoria di un grande passato. Forte è il contrasto fra la profondità del messaggio e la superficialità del gran correre dei nostri tempi.
La cappella-sosta di Zermani invita alla contemplazione e al silenzio. Nel continuo vociare dell’odierna quotidianità diviene un segno feriale di resistenza e, per il viandante, forse anche segno per un’inaspettata sacralità.
Quando fra i tronchi degli alberi si intravedono i manufatti si resta affascinati dall’intelligenza di quei segni, dalla loro disarmante semplicità, dalla maestria della composizione che, con misura e poesia, configura un vero e proprio ambiente, una stanza a cielo aperto tesa fra la terra del bosco e la sommità degli alberi che bucano il cielo.
Il muro di cotto offre un’ampia superficie e con il vibrare dei mattoni suggerisce la presenza dell’uomo, quasi si trattasse di uno spazio domestico. La croce metallica moltiplica l’immagine delle sue braccia con le ombre proiettate sulla parete o sul suolo dallo scorrere impercettibile del sole. Il viandante è invitato a sostare, a diventare presenza attiva nel teatro della composizione per offrire una misura e una scala di riferimento umane, in quel quadro metafisico giocato fra cultura e natura.
Nella dimensione fragile del nostro vivere, di fronte all’immensità del tempo e dello spazio, l’architetto parla dell’inafferrabilità del sacro dove, come ha osservato Le Corbusier, il fatto architettonico è in grado di «lasciar riaffiorare un’intuizione memore di esperienze acquisite, assimilate, forse dimenticate, che riemergono in una forma incosciente. La bellezza dello spazio è dentro di noi, l’opera può evocarlo ed esso può rivelarsi a coloro che lo meritano, a chi entra in sintonia con il mondo creato dall’opera, un vero altro mondo. Si spalanca allora un’immensa profondità che cancella i muri, scaccia le presenze contingenti, compie il miracolo dello spazio indicibile».
Di fronte alle considerazioni affascinanti del maestro svizzero-francese dobbiamo riconoscere la povertà dei nostri tempi; sempre più rare sono infatti le occasioni di incontrare architetture contemporanee in grado di interpretare (all’interno delle attuali contraddizioni che attanagliano il “fare”) le suggestioni evocate da quello spazio “indicibile”.
La cappella di Zermani è un esempio significativo con un registro espressivo proprio del nostro tempo dell’intensità del dialogo fra architettura e paesaggio. Si riapre così un possibile confronto con il mistero narrato dalla croce e il coinvolgimento emotivo dell’osservatore. La stretta simbiosi con il sito crea una nuova identità che si riappropria della memoria di un grande passato. Forte è il contrasto fra la profondità del messaggio e la superficialità del gran correre dei nostri tempi.
La cappella-sosta di Zermani invita alla contemplazione e al silenzio. Nel continuo vociare dell’odierna quotidianità diviene un segno feriale di resistenza e, per il viandante, forse anche segno per un’inaspettata sacralità.
di Mario Botta