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La casa che sorride nel vecchio giardino di Erevan

​Avolte parlano, le vecchie case che stanno andando in rovina.
E non solo per raccontare le loro storie, le loro ferite, i restauri, gli abbandoni, o per farci credere ai misteri che abitano dentro i loro vecchi muri: dalle porte che si aprono sul nulla, alle finestre scomparse, alle soffitte piene di oggetti misteriosi e malefici. A volte raccontano un’epoca intera – o la sua fine.
Nelle nostre città si tende oggi a conservare e restaurare, dopo i disastri edilizi dei decenni del dopoguerra; ma le cose vanno ben diversamente nelle grandi città dell’ex Unione Sovietica, dove certo vengono salvati le antichità e i monumenti più celebri, ma le vie di umili casette a due piani, con gli orti e i giardinetti, le aiole di zinnie e dalie, le rose o i convolvoli azzurri sulle facciate, scompaiono velocemente, sostituite da palazzoni anonimi, oppure languiscono morendo un po’ alla volta insieme ai vecchi che le abitano e rifiutano di abbandonarle.
Ero immersa in questi e simili pensieri, un po’ oziosamente, mentre tiravo le tende della mia stanza al terzo piano del grande albergo di Erevan dove mi avevano alloggiata un mese fa, quando improvvisamente mi si aprì davanti uno scenario da fiaba orientale (o gotica?). Davanti alla finestra si rivelava un rigoglioso giardino, molto trascurato. Alte acacie si intrecciavano sotto di noi, quasi a formare una cupola che appena lasciava intravvedere il suolo. Ma aldilà del rettangolo del giardino si stagliava la casa: sulla destra, un grande portone antico da cui sembrava che nessuno fosse più entrato né uscito da decenni, coronato da un maestoso arco d’ingresso tagliato in due dall’alto in basso da una vistosa crepa e sormontato da un muraglione compatto, alleggerito da eleganti intarsi di tufo di diversi colori. Forse era – un tempo – l’ingresso posteriore per le carrozze, perché la facciata della casa dava con ogni probabilità sulla strada esterna dall’altra parte.
A sinistra del muraglione, cupo e imponente, c’erano i leggiadri resti di un autentico jardin d’hiver, una spaziosa serra che ai suoi bei tempi avrà ospitato piante rare, cedri, aranci e limoni d’Italia, palme esotiche, lievi colorate orchidee, una vegetazione adatta al caldo clima estivo, non certo a quello invernale di Erevan. Ma oggi dei leggeri riquadri di vetro dell’intera aerea costruzione ne restano pochi. La parte centrale è stata sostituita da un’ampia lastra rettangolare di alluminio, alcuni sono rimpiazzati da cartoni, altri semplicemente mancano.
Ma dentro qualcuno ci vive. C’è un tubo di stufa che esce da una parte, una pericolante grondaia di lamiera su un lato, un bagliore di televisione la sera (l’antenna parabolica luccica nuova), e in fondo si scorge un sofà. Il tetto di lastre di rame è stato malamente riparato con pezzi di lamiera, e intorno all’abbaino in cima al tetto è stato avvolto saldamente un nastro isolante azzurro.
Guardo e riguardo la casa malconcia, che ancora orgogliosamente sfida il tempo e tutti i nuovi edifici che la circondano. «Quanto durerai, cara?», le domando. «Chi abitava il giardino, prendeva il tè nella serra piena di profumi e di nostalgia per il sud? Quali viaggiatori, dalla polvere di quali vie carovaniere ti vedevano come un sognato approdo?». Misteriosamente, la casa sorride.
di Antonia Arslan