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La luce di Riva e le navi del Gattamelata

​Riva del Garda. Uscii dall’albergo dopo aver fatto colazione, c’era tempo per una passeggiata prima di ripartire per le nebbiose pianure.
E mi trovai immersa in una luce accecante, stabile, come se il sole stesse immobile nel cielo, proiettando una luce uniforme e tersa, senz’ombre. Il cielo era di smalto, perfettamente liscio e limpido. Le strade del centro si estendevano diritte, non c’erano automobili, solo gente che camminava, immersa nelle sue faccende. Un gruppo di ragazze cinguettanti esibiva felici sorrisi; un altro gruppetto stava in circolo intorno a una bambinetta che aveva appena imparato a camminare, in estasiata adorante ammirazione.
Mi avviai lenta, sentendo le ossa intiepidirsi pian piano, come se una linfa vitale iniziasse a percorrermi, e poi mi fermai al primo incrocio, incerta sulla direzione da prendere. Tutte sembravano attraenti e luminose, ma decisi di svoltare a destra, verso una porta antica imponente, ma non ostile né minacciosa, circondata anch’essa da quella luce splendente e tranquilla, come immersa in un sogno. Oltre la porta si apriva una piazza, e sullo sfondo una chiesa aperta e un suono di campane nell’aria. Stava iniziando una Messa domenicale.
Mi fermai, sedendomi su una panchina. Volevo gustare la forza di quella luce, scaldarmi il cuore oltre che le ossa, fare mia quella visione di bellezza: volevo non dimenticarla, tenerla nella mente come risorsa per i tempi bui, come sempre ripeteva nonna Virginia quando ci faceva ammirare qualche monumento.
Allora mi sembrò improvvisamente che quella luce così strana e speciale avesse davvero fermato il tempo, riaprendo la mente a ricordi lontani, ai racconti sul Garda di mio padre a noi bambini, quando guidava veloce verso Sirmione, con la triste storia del suo amico d’infanzia travolto in barca da una delle tempeste improvvise per cui il lago era famoso. «Bisogna rispettarlo, il grande lago, non trattarlo con troppa confidenza», era la frase conclusiva, insieme alla declamazione del verso famoso di Catullo, «paeninsularum, Sirmio, insularumque ocelle», cui seguiva il teatrale sospiro, «ma cosa perdo tempo con voi cinque, che comunque siete irrimediabilmente somari, meglio portarvi a mangiare un gelato». Poco importava a noi della nostra natura somaresca, molto l’eccellente coppa di gelato e amarena che ci aspettava.
Ma poi un’altra storia – bellissima – riemerse, questa proprio ambientata a Riva (antichi i fatti, recente il racconto, imparato da un delizioso libretto di Paolo Malvinni), e si riaffacciò alla memoria con la naturalezza delle grandi epopee: la “magnifica intrapresa” che il famoso condottiero Erasmo da Narni detto il Gattamelata, la cui possente statua equestre s’impone nella piazza del Santo di Padova, compì nell’anno 1439. Per liberare Brescia assediata dai milanesi, con il suo secondo Sorbolo da Candia e il maestro d’ascia Blasio de Arboribus, s’inventa una trovata incredibile e, «galeas per montes conducendo», porta le navi della Serenissima su per i monti, per riportarle in acqua a Torbole e impadronirsi così del lago, per i veneziani.
E fu con questa immagine fervida e solare dell’impavido condottiero settantenne e dei suoi geniali aiutanti che lasciai la luce del Garda per far ritorno in pianura.

di Antonia Arslan