Luoghi dell' Infinito > La mia Lina

La mia Lina

​Le mie due amiche-sorelle del cuore, alle elementari, erano Lina e Camilla. Non c’era compagna di classe o figlia di amici dei miei genitori che per me si potessero paragonare a loro, “neanche per un secondo”, rispondevo rabbiosa alle sollecitazioni di zia Enrica. Le amavo con trasporto, mi confidavo con loro, raccontavo loro i libri che leggevo avidamente nei lunghi pomeriggi invernali, quando andavo a trovare una cugina di mio padre vedova, Maria Teresa Vigliani.
Lei abitava da sola in una cupa vecchia casa, con uno strano pesante mobilio finto Rinascimento, pieno di vetusti seggioloni e grandi specchi dappertutto, e - dopo un giro nel suo ombroso giardino di peonie e una ricca merenda - mi lasciava da sola a frugare nello stanzone pieno di libri che era stato lo studio del suo defunto marito, un professore baffuto dall’aria autorevole il cui ritratto mi guardava benevolmente dal­l’alto. Là trovai molti romanzoni ottocenteschi di cappa e spada, una vasta raccolta di proclami risorgimentali, serissimi tomi di filosofia e medicina e l’intera serie dei romanzi della Primula Rossa con le loro accattivanti copertine.
Me ne innamorai perdutamente. Sir Per­cy Blakeney divenne il mio eroe, e ogni giorno raccontavo a Camilla, a scuola, le pagine che avevo letto il giorno prima. Ben presto la coinvolsi nella mia ardente ammirazione; poi, non contenta, cominciai a scrivere letterine entusiaste alla mia seconda amica-sorella, Lina, che abitava a Susin di Sospirolo, nell’amatissima Val Belluna. Lei trovò da qualche parte il primo romanzo della serie, se lo lesse tutto, e divenne a pieno titolo socia del Club della Primula Rossa, che avevo nel frattempo fondato con Camilla e un paio di altre compagne.Ma Lina se ne disamorò presto - e io in verità la seguii subito dopo. Era una bambina esile, riflessiva e gentile, con lunghe trecce chiare: unica femmina fra parecchi fratelli, molto ubbidiente a sua madre - la materassaia robusta e “comandona”. Aveva circa un anno più di me. D’estate stavamo sempre insieme, parlavamo di ogni cosa e ci scambiavamo curiosità e i piccoli pettegolezzi delle bambine. Lina aveva una serie di pupazzetti di pezza che io le invidiavo moltissimo, perché erano tutti diversi uno dall’altro e gli avevamo dato i nomi e i caratteri per le storie infinite che ci raccontavamo nelle nostre lunghissime passeggiate. Era dolce con me, ma non si arrendeva facilmente, e io desideravo moltissimo la sua approvazione; alla sera mangiavamo in fretta, per poi ritrovarci nella notte calda e materna, in fondo alla scala esterna della casa di mia nonna, a completare il racconto di quel giorno, sia che fosse su un cavaliere vichingo o su Candullino eroe irlandese e la sua bella Evar “dagli occhi di viola” (e ci domandammo a lungo con grande ammirazione come fossero gli occhi di quel colore...).
Dopo la quinta smise di frequentare e andò a scuola di cucito, diventando una bravissima sarta. Ma continuò a leggere molto, e scriveva benissimo. Venne a trovarmi a Padova, andammo insieme a Venezia, e sempre poi nel corso degli anni ritrovavamo subito la nostra tenera intesa di bambine – e ci sentivamo legate. Qualche tempo fa se n’è andata, e benché la sua mente ormai viaggiasse per ignoti sentieri, sono riuscita a sussurrarle di lontano all’orecchio le parole del cuore.