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La preghiera dei santi e il rabbino di Chagall

​Maria Gloria Riva

Marc Chagall, Il rabbino di Vitebsk, 1914 -1922, olio su tela. Venezia, Ca’ Pesaro
Chagall aveva lasciato la Russia nell’agosto del 1910 per vivere a Parigi. A Pietroburgo, presso la Scuola imperiale delle Belle arti, aveva frequentato un corso di arte moderna, rimanendo affascinato dall’impressionismo francese. Così, giunto in Francia, frequenta le avanguardie artistiche e letterarie (come Delaunay e Apollinaire); assorbe le lezioni sul colore di Van Gogh e dei Fauves e non disdegna le forme del cubismo, rimanendo però, in certo qual modo, sempre fedele a se stesso. Chagall visse cercando perennemente un equilibro fra la fedeltà alle sue radici di ebreo russo e l’apertura al mondo occidentale con le sue avanguardie e l’alfabeto del­l’arte cristiana. Il rabbino di Vitebsk - esposto a Mestre pres­so il Centro Culturale Candiani nella mostra “Chagall. Il colore dei sogni” - registra puntualmente questa doppia tensione.
Nel 1914 Chagall torna in Russia. L’aveva lasciata quasi sbattendo la porta a causa del padre, che ne aveva mal tollerato le ambizioni artistiche. Non gli era mancato invece il sostegno della madre: donna volitiva, fiera della sua identità yiddish e capace di grande apertura. Quella che doveva essere una breve permanenza in patria si trasforma, a motivo del conflitto mondiale, nella lunga pagina di otto anni di vita.
Fu un periodo fondamentale per Moishe Shagal (diventato ormai noto con il nome francesizzato di Marc Chagall), non solo perché sposò, nel 1915, la sua musa ispiratrice Bella Rosenfeld ed ebbe la sua primogenita Ida (1916), ma anche perché il ricongiungimento famigliare gli permise di entrare più profondamente in quel mondo mistico e religioso dello Shtetl che aveva segnato la sua infanzia. Eseguì in questo periodo numerosi dipinti su Vitebsk e la sua gente. Persino il padre Khatskl si lasciò ritrarre, nonostante la sua riluttanza verso la carriera artistica del figlio colpevole di allontanarlo dalla fede degli avi. Un ritratto di Khatskl, datato 1914, è tornato alla ribalta da poco per essere giunto alle sale espositive del Jewish Museum di New York, dopo la confisca hitleriana. In quest’opera il padre si presenta pallidissimo, con gli occhi cerchiati e lo sguardo mite verso il figlio che lo stava ritraendo. Ciò fa pensare allo stato di salute di Khatskl Shagal, che morirà nel 1921. In quel 1914 Chagall avrebbe desiderato ritrarre il padre con indosso il talled, i tefillim e le mezuzah, cioè con quell’abbigliamento legato alla preghiera sinagogale che aveva riempito di forme, suoni e colori la sua infanzia. Fu forse per rispetto verso la riluttanza paterna che Chagall chiese a un vagabondo di posare per lui con gli abiti liturgici del padre. Egli stesso lo narra in Ma vie: «Un altro vegliardo passa davanti a casa mia. Capelli grigi, espressione arcigna. Un sacco sulle spalle. Sentite - gli dico -, riposatevi un po’. Sedetevi. Così. Per voi è lo stesso, vero? Vi riposerete. Vi darò venti copechi. Dovete solo indossare l’abito delle preghiere di mio padre e star seduto».
Da questo vivace racconto nasce il dipinto a olio dell’ebreo in preghiera. È il momento di Arvit, la preghiera della sera: il vecchio è seduto, forse intento a recitare lo shemà Israel, che dà inizio ad Arvit. Con il sapiente gioco di bianchi e di neri Chagall ci introduce in quell’atmosfera solenne e mistica che aveva respirato in sinagoga: «Non ho parole per tradurre le ore della preghiera della sera: il tempio mi sembrava popolato di santi. Lentamente, gravemente, gli Ebrei dispiegano i loro veli sacri, pieni delle lacrime di tutta la giornata di preghiere». Questo vecchio homeless russo dal cattivo odore (come ebbe a lamentare l’artista) ma dallo sguardo mite e le labbra imploranti diventa la cifra della preghiera dei santi.