Luoghi dell' Infinito > Luigi, il maestro di Atene

Luigi, il maestro di Atene

​Come portato dalla folata di vento carica di pioggia che entra dalla grande vetrata al ventottesimo piano, mi arriva improvviso il ricordo - o meglio, il ritratto quasi parlante - del mio caro Luigi, l’amico più importante dei miei anni di archeologia.
Era un uomo giovane, dalla struttura solida, con grandi mani. Aveva un bel viso dall’aria classica, squadrato, capelli folti e mossi; gli occhi ti fissavano concentrati, un po’ timidi un po’ sospesi, come se di fronte alle persone dovessero a fatica distogliersi dalle amate pietre antiche.
Quando iniziai l’università, scelsi Lettere, ma Lettere Antiche, come si diceva allora, con una punta di distacco verso chi faceva invece le “Moderne”, e quindi non aveva a che fare con la classicità - e soprattutto con il mio amatissimo greco - e non si doveva misurare col terribile esame scritto di traduzione dall’italiano in latino... Fra i corsi che frequentai subito, lo ricordo come un periodo di felicità, c’erano archeo­logia, storia e letteratura greca; e Luigi Beschi era allora l’assistente di Carlo Anti, archeologo illustre ed ex rettore, al­l’ultimo anno di insegnamento. Dalle grandissime finestre di quell’aula maestosa al pianterreno del Liviano si vedevano gli alberi enormi della piazza, e i rumori delle bancarelle dei venditori all’esterno entravano come un’eco lontana. Anti spiegava le forme dei teatri greci arcaici, e Beschi col suo bel sorriso un po’ distante mostrava disegni e planimetrie. Lo assillavo spesso, dopo la lezione, per una delle mie mille domande, e un po’ alla volta mi accettò.
Ogni tanto, in seguito, cominciai ad aiutarlo in certe sue ricerche sui grandi repertori delle iscrizioni greche e latine; e fu allora, in quei sereni pomeriggi tranquilli, che - vedendo come nella sua mente avveniva il riconoscimento della somiglianza tra le fotografie di frammenti ritrovati in luoghi diversi, in condizioni magari diversissime di conservazione - un poco alla volta compresi che io proprio non avevo quella scattante memoria visiva delle “forme” di monumenti, statue, reperti che invece ci voleva per il suo mestiere. Fu un’utile lezione di umiltà, anche se non cambiai indirizzo allora, ma solo dopo la laurea. Poi lui andò alla Scuola di Atene, ma tornava spesso a Padova, perché si era innamorato di Caterina Spetsieri, lettrice di neogreco e donna simpatica e molto corteggiata. Io seguivo le sue lezioni, l’amavo moltissimo e da lei imparavo moltissimo. Eravamo solo in tre: e più che insegnarci le complicate derivazioni della lingua moderna dall’antica, ci faceva ascoltare le canzoni dei palikari e i ritmi di Theodorakis, assaggiare le olive di Kalamata e le prelibate melanzanine sott’olio che sua madre le mandava da Atene. La Grecia in lei diventava vivente.
Luigi e Caterina ci ospitarono molte volte ad Atene. Lui era diventato un grande professore, ma non cambiò mai carattere: si faceva amare, e ti insegnava molte cose senza alcuna superbia. Ma non sopportava le “arie inutili”: una sera, a una cena elegante, a una dama che gli disse, leziosa: «Professore, non pare anche a lei che mangiare a lume di candela è incantevole, così raffinato?», rispose seccamente: «Non direi. Ho dovuto studiare per anni solo con le candele, rovinandomi gli occhi. A casa nostra, i miei non avevano ancora la luce elettrica...».