Maria la zingara, madre antica giunta dall’Est
All’inizio degli anni Novanta fui invitata, in due anni successivi, a tenere alcune lezioni di letteratura contemporanea all’Università di Bucarest. L’era di Ceausescu era finita nel sangue da poco e la città si stava faticosamente riprendendo dai suoi - terribili - anni di piombo. Feci molta amicizia con Oana Salisteanu, la collega che mi aveva invitata e con suo marito Radu Cristea, giornalista, che era stato fra i primi a irrompere nel sontuoso palazzo nuovo del dittatore, nei giorni della rivolta popolare. La gente girava ancora per le strade con aria sospettosa e spaurita, come se non si capacitasse abbastanza di poter parlare liberamente, senza l’incubo dell’ubiqua polizia segreta, la Securitate; il latte fresco quasi non si trovava, neanche per i neonati; negozi praticamente non ce n’erano, e i pochissimi desolatamente sforniti. Solo in un caffè poveramente arredato di una piazza centrale, i giovani si affollavano perché era arrivata la Coca Cola e si vendevano fette di pizza confezionata e qualche gelato dal sapore misterioso.
Il secondo anno fui ospitata da un altro amico, Marin Cazacu, un bravissimo violoncellista, che abitava con la moglie in un isolato palazzone di stile sovietico all’estrema periferia della città. Dal balcone del suo appartamentino al sesto piano si vedeva allungarsi, e perdersi all’orizzonte nella fertile campagna romena, una strada bianca relativamente poco frequentata, percorsa da qualche vecchio motocarro e dai pochi contadini che la mattina presto venivano a vendere in città qualche litro di latte o un po’ di patate. E fu da quel balcone - osservando il portamento diritto e fiero, pieno di antico orgoglio, di una numerosa famiglia che si allontanava col suo grande carro trainato da robusti cavalli - che mi parve per la prima volta di comprendere davvero la cultura del popolo degli zingari: che in Romania sono tanti, ancora esercitano gli antichi mestieri e suonano alle feste di paese - e hanno anche una loro rappresentanza in Parlamento.
C’è la stessa dignità non lamentosa nel modo in cui tende la mano la mia amica Maria. Ha l’aspetto ordinato, un bel viso ovale e lineamenti sereni: e quando le dai qualcosa, ti raccomanda al Santo, al nostro Antonio, al quale gli zingari sono sempre devoti. Sta tranquilla in un angolo coperto del marciapiede, accoccolata per terra, stendendo la grande gonna a fiori, e il selciato intorno a lei diventa improvvisamente fiorito. Il fazzolettone intorno al capo sa di antica civiltà contadina, e mi ricorda ogni volta lo chignon arrotolato basso e i folti capelli grigi di Giulia la materassaia, la mamma della mia amica Lina, che governava le case dei Pison a Susin di Sospirolo in Val Belluna con mano sicura e piglio indiscusso: il suo fazzolettone annodato lo portava come una regina, e tutti la rispettavano. Maria vive in Italia, ma viene da un villaggio della Romania profonda. E là, a casa, ha tre figli, due maschi e una femmina: Alexander, Nicolai e la piccola Maria, che stanno con la nonna e vanno a scuola. Sua madre però è fragile, è ammalata di diabete, e ha anche subito per questo un’operazione al piede. Maria parla spesso di loro, si vede che ci pensa, e per questo ogni tanto ha come un’ombra negli occhi. E io guardo con profondo rispetto questa madre antica e la sua serena pazienza.