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Nuove carte dal territorio al terreno

di Franco Farinelli​

Nel 1840 il governo prussiano decise, per primo, di autorizzare la vendita al pubblico delle carte topografiche militari, sottraendone l’esclusiva all’esercito: si trattava di completare l’allestimento statale secondo il codice della territorialità moderna, andando incontro, prima d’altro, alle esigenze connesse alla messa a punto della rete ferroviaria.

Perciò, non senza qualche esitazione, si stabilì di diffondere anche presso la società civile il più preciso e minuzioso ritratto di cui allora lo Stato disponeva, quello fino ad allora riservato alla pratica bellica. L’esempio della Prussia fece scuola non soltanto in Europa, ma in tutto il mondo occidentale. È dunque alla polemologia prussiana dell’Ottocento che bisogna chiedere la chiave di lettura della rappresentazione più esaustiva, appunto quella topografica, del territorio europeo; questo almeno fino alla cartografia a scala ancora più grande prodotta dalle singole regioni nella seconda metà del secolo scorso, e poi all’avvento di Google Maps. Sicché per un secolo almeno, spesso quello costitutivo, la costruzione degli Stati europei è stata fondata su di un’immagine retta dalla programmatica e sistematica sostituzione del terreno (il modo con cui la faccia della Terra si presenta all’occhio del soldato) al territorio, vale a dire di quel che è semplicemente naturale a quel che all’opposto è l’effetto dell’organizzazione del dato fisico da parte del complesso dei processi politici. Un’immagine fondata insomma sull’implacabile espunzione dalla faccia della Terra di ogni possibilità di richiamo al valore economico e sociale, oltre che storico, dei suoi lineamenti.

 

Come nel suo trattato Sulla Guerra (1832) ha spiegato Carl von Clausewitz: il concetto di terreno riguarda solamente la forma della regione e il suolo, caratteristiche che per di più hanno rilevanza unicamente sotto il triplice aspetto di ostacolo alla vista, alla percorribilità, e mezzo di copertura contro gli effetti del fuoco. E continuava: se il combattimento si svolgesse in una perfetta pianura senza traccia di colture il terreno potrebbe, a rigore, essere senza alcuna influenza, ma questo accade soltanto nelle contrade steppose.

 

Nella "parte incivilita" dell’Europa vale invece il contrario. A distanza di pochi mesi dalla pubblicazione di quello che resta il più famoso dei manuali bellici moderni Hans Christian Andersen scriveva una favola anch’essa celebre. In essa soltanto la semplicità infantile riesce ad accorgersi che I vestiti nuovi dell’imperatore non esistono, e che il re è nudo. Tradotto in quel che qui adesso importa: lungi dall’essere «lo strumento di precisione, il documento esatto che raddrizza le nozioni false», come all’inizio del Novecento proclamava Paul Vidal de La Blache, la carta topografica è invece, a dispetto della propria struttura geometrica e matematica, un’immagine oltremodo parziale, soggettiva, limitata e interessata, della cui spoglia essenza si fa però molta fatica a rendersi conto. Se ne guardi una a caso, e ci si chieda a che cosa corrisponda il bianco, il fondo che appunto perché privo di ogni connotazione consente l’esistenza di ogni altro segno, garantendo alla mappa, appunto in virtù della sua nudità, ogni possibilità di significare qualcosa. La superficie candida e immacolata, che vuol dire assenza, sta paradossalmente per la cosa più comune, uniforme e diffusa, sebbene instabile: l’insieme delle colture erbacee. Proprio perché irrilevante come ostacolo o riparo e inutile come riferimento visivo in caso di combattimento, a differenza degli arbusti e degli alberi l’erba è la prima ad essere eliminata dalla necessità tecnica – propria di ogni figurazione cartografica – della riduzione e dell’approssimazione del reale. Così basta pensare al ruolo fondamentale rivestito in agricoltura dal seminativo per avere la misura della relatività del rilievo topografico, volto a convertire in semplici condizioni di accessibilità e di agibilità del terreno (dunque a tradurre in attributi fisici) tutte le espressioni dell’intervento umano che ne fanno in realtà un ambiente storicamente e socialmente prodotto.

 

E fu in tal modo che la base materiale della statualità contemporanea finì con l’assumere, attraverso l’esportazione più o meno consapevole dello sguardo del soldato, la sintassi e la logica del sapere dell’armata: il nucleo originario di quella che oggi viene chiamata logistica, divenuta nel frattempo da pensiero delle caserme filosofia e pratica aziendale.