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Pane, erbe e brindisi il gusto del rito

​Quando entrammo, invitati dal nonno del nostro ospite, nella calda cucina c’erano un grande tavolo, un letto e tre sedie.
L’intera casa comprendeva solo un’altra stanza, appena un po’ più grande. Come ospiti d’onore, fummo fatti accomodare sulle sedie, e la famiglia, insieme a diversi ospiti, cominciò a girarci intorno, con una curiosità affettuosa piena di domande e di sorrisi.
Imbarazzata, avrei voluto cedere la sedia alla nonna, ma lei mi sventolò la mano davanti con un gesto definitivo, facendomi capire chiaramente che era occupata col cibo. Era lei infatti il capo del gruppo di donne riunite intorno al forno, che lavoravano in fretta ma con assoluta precisione, come in una danza segreta. Stavano preparando il gingali hatz, e la nonna, matriarca indiscussa, batteva il tempo. La prima prendeva una pagnottina tonda morbida e piatta, e la distendeva col mattarello e col dorso della mano. Poi la passava con un movimento fluido e leggero, come lanciandola nell’aria, a quella al suo fianco, che la riceveva nelle due mani giunte a coppa e vi scavava una tasca; quindi la allungava verso la terza, che aveva già pronto un cucchiaio pieno, pescato nel contenuto di un pentolone (sette erbe diverse, mi dissero).
La quarta chiudeva i lembi del pane formando un fagotto semisferico, che sigillava torno torno con molta attenzione. Poi lo passava alla nonna che concludeva il rito, posandolo con delicatezza sulla lastra del forno acceso per deporlo infine sul tavolo, componendo una grande ruota, che riempiva man mano fino a formare una collinetta profumata e perfetta. Tutti guardavano e aspettavano, anche i bambini. Quando con un gesto maestoso la nonna depose personalmente in cima l’ultima pagnottina, aggiungendoci sopra un rametto misterioso, tutti tirarono un sospiro collettivo: ma ancora non successe niente, nessuno allungò una mano, nessuno si avvicinò al piattone che riluceva come un sole benigno. Solo allora il nonno si alzò in piedi e disse la benedizione. Le parole antiche sgorgavano dalla sua bocca con solenne lentezza; infine tutti ripeterono insieme quelle finali e si fecero il segno della croce.
E ancora tutti stavano fermi, finché il nonno si protese sul piatto e afferrò il rametto e l’ultimo pezzo di pane e se li cacciò rumorosamente in bocca. Allora, come liberati da un incantesimo, tutti cominciarono a parlare e a mangiare, il vino rosso e la vodka di gelso iniziarono a circolare, i bambini afferravano il cibo e se lo portavano sotto il tavolo, dove nessuno li disturbava. Arrivarono il gatto e il cane, ma per loro era troppo presto e furono cacciati via senza complimenti.
Poi la cerimonia riprese da capo, col balletto gentile delle donne, e il piattone fu riempito di nuovo; ma stavolta il capo del banchetto, il tamadà, era pronto e cominciarono i brindisi. Ognuno ne fece, chiamando il nome di persone care, e tutti assentivano entusiasti: ci si capiva come se fossimo amici da una vita, uniti contro un mondo ostile, in quel posto qualsiasi fra le montagne del Caucaso immenso. Fuori, la giornata di marzo si incupiva, cadeva qualche fiocco di neve.
Allora la nonna mi disse: «Sai, io conosco l’America», e con un gesto regale mi mostrò una grande carta geografica e tutta fiera me la indicò con un dito.

di Antonia Arslan