Luoghi dell' Infinito > Rembrandt e il tempio nell’ombra che si fa luce

Rembrandt e il tempio nell’ombra che si fa luce

​Aveva solo ventidue anni Rembrandt Harmenszoon van Rijn quando dipinse, nel 1628, questa Presentazione al Tempio. La qualità del­la sua pittura (e l’intensità psicologica dei suoi personaggi) fu notata, l’anno seguente, dallo statista e poeta Constantijn Huygens, il quale gli procurò committenze preziose da parte della corte reale dell’Aia. Ed è in effetti possente e carico di rimandi l’intreccio di sguardi fra Maria e il Bambino, tra il santo vecchio Simeone e la Madonna.
Il Tempio, avvolto nell’ombra, pare in attesa di una luce nuova. Il suo tempo si è compiuto: è giunta l’ora di un nuovo Tempio, quello del Corpo del Redentore. Ciò che patriarchi e profeti avevano annunciato e atteso, ora qui accade. Secondo un espediente iconografico caro a molti fiamminghi (come Jan Van Eyck e Robert Campin) la candela spenta segna un termine e, insieme, il sopraggiungere di una luce che supera quella di questo mondo.
La luce di una finestra, infatti, si proietta sul muro ma è poca cosa rispetto alla luminosità del Bambino che Simeone tiene in braccio.
Il ridente nome della donna anziana, Anna di Fanuele della tribù di Aser, s’infrange nel gesto possente della stessa, carico del rimando al destino ultimo di questo bambino: la croce. Anna, infatti, significa “Dio fa grazia”, mentre Fanu-el “colei che vede Dio”; infine, il nome della sua tribù, Aser, significa “beato, felice”. Nel nome di questa donna c’è il ribaltamento del suo destino. Segnata dal dolore fin da ragazza, per la vedovanza precoce e per la solitudine, era vissuta, come dice il Vangelo di Luca, all’ombra del Tempio «servendo Dio». Ed ecco che in questa fedeltà il suo nome si compie: Dio le fa la grazia straordinaria di vederlo, di riconoscerlo in un bambino comune. Una visione che compie la sua attesa di felicità. Proprio a lei, che nella vita aveva sperimentato la croce, Rembrandt assegna il compito di manifestare il destino di morte del Messia.
Maria e Simeone sono un tutt’uno: un intenso gioco di sguardi racconta il loro dialogo. Il vecchio Simeone alza la mano destra come per proteggere quella giovane donna, che vedrà una spada trafiggerle il cuore. Anch’egli, come Anna, prende tra le braccia un bimbo e riconosce il suo Dio. La nobiltà dell’animo di Simeone è resa dall’artista nell’abbigliamento curato, soprattutto il manto di pelliccia, segno dell’agiatezza di chi è benedetto da Dio. Maria tiene gli occhi fissi su Gesù e le mani strette in preghiera, è la Madre adorante che, di nuovo, di fronte all’annuncio di Simeone dice il suo sì. La spada, infatti, è la croce sopra la quale quel Bambino di luce sarà trafitto.
Testimone oculare, silenzioso e devoto, di questo Mistero teso fra morte e vita è san Giuseppe. In controluce e con il cappello fra le mani, Giuseppe, secondo Rembrandt, ha il compito di introdurci nella narrazione evangelica. Non ci è dato di vederlo in volto perché il santo rappresenta l’umanità che, di generazione in generazione al pari dei personaggi in scena, è chiamata a riconoscere il Messia a dispetto delle apparenze. Così dietro a san Giuseppe ci siamo noi, fatti d’ombra, colmi di attese e di domande; noi che, a dispetto delle sofferenze e delle croci della vita, desideriamo «vedere Dio».