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Un fiore dalla Sardegna

​Sardegna, una terra lontana e misteriosa, per me, da quando sull’Enciclopedia dei Ragazzi, in nonsoquale dei dieci volumi che mi sembravano la bibbia del sapere universale, capitai su un suggestivo disegno che raffigurava dei nuraghi, e me ne innamorai. Cominciai a fantasticare sulla favolosa gente che li aveva abitati, su terribili draghi sputafuoco ed eroi che salvavano bellissime principesse, mescolando senza paura le tante storie che avevo imparato leggendo la mitica Enciclopedia della fiaba.
Per tanti anni, dopo, non mi successe mai di andare nell’isola. Avevo letto Grazia Deledda e anche, come tutti, la storia di Garibaldi e del suo ritirarsi finale a Caprera; sapevo, come tutti, dello sviluppo turistico e della Costa Smeralda, con i suoi paperoni e le loro villone, ma la gente di Sardegna e la loro realtà umana proprio non la conoscevo, finché non incontrai la bella Rosanna, il mio selvatico fiore sardo.
Caterina la pugliese, che ci aveva allevato, noi due e la nostra figlietta, era morta quasi improvvisamente, di un diabete subdolo e allegramente trascurato dal suo insopprimibile amore per dolci e frittelle, babà, cassate e pastiere. E un bel mattino arrivò Rosanna, alta e fiera quanto Caterina era stata piccola, tonda e autoritaria. Si ambientò subito con noi. Parlava un italiano forbito con un accento deciso ma delicato, ed era bambina nel cuore, pronta ad aprirsi agli altri (anche troppo, pensammo, di fronte a certe sue delusioni, a certi suoi pianti).
Aveva molti fratelli e sorelle: alcuni vivevano nell’isola, altri erano emigrati, ma c’era sempre fra loro un fitto parlarsi, un sapere gli uni degli altri e un’aria di parentele allargate che mi fecero subito venire in mente i nostri numerosissimi “cugini” e zii armeni e le chiacchiere infinite quando arrivavano in massa dalla Siria o dal Libano. Ma quelli erano lontani e vivevano in paesi stranieri; fra i parenti di Rosanna sembrava esserci come una rete di maglie robuste, calda e pronta ad attivarsi velocemente in qualsiasi momento. E a Pasqua - in braccio o nella sporta di qualcuno - sempre arrivava un agnello.
Rosanna sapeva fare moltissime cose; ma quando non le sapeva, riusciva a trarsi d’impaccio inventandone altre, oppure ti lanciava un sorriso speciale e tirava un po’ indietro la testa, come a farsi coraggio. Ci invitò a cena con un paio di fratelli e le loro famiglie, e tutti finimmo a cantare felici, accettati nel clan. E da allora ci fu tra noi un affetto serio, senza smancerie ma affidabile e sicuro: quel genere di “sicurezza d’amore” di cui tutti abbiamo tanto bisogno. Ma la vita ha le sue strade, e a un certo punto lei scelse di andar via.
Negli ultimi anni diverse volte io sono stata nell’isola, l’ho percorsa e un poco compresa: ma soltanto ora, dopo tanto tempo, il mio fiore sardo è tornato. Siamo invecchiate entrambe, Paolo non c’è più e la figlietta se n’è andata lontano: ma il cuore di allora, quello c’è ancora, e i dolci caffè, e le chiacchiere. Ed è nata fra noi un’amicizia matura, che sa scherzare con parecchia ironia, che comprende e rispetta le sfumature e il peso delle realtà che abbiamo entrambe vissuto, e i valori che attraverso gli anni sono rimasti vividi nella mente e nel cuore. Non c’è più bisogno di affermazioni perentorie: basta la complicità di un sorriso.