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Un incontro in ospedale

​Antonia Arslan

In ospedale si va per guarire, ma si imparano anche tante cose. Restare chiusi per diversi giorni in una grande stanza insieme ad altre persone, conoscerle, chiacchierare durante le lunghe giornate, darsi una mano, ricevere confidenze gentili e i saluti quotidiani dei parenti che vengono per uno ma sono sempre disposti ad aiutare un altro: ogni dettaglio, ogni momento vissuto - e non da soli - porta calore e sollievo, stabilisce un affiatamento, una solidarietà che presto diventa amicizia. Magari provvisoria: ma sicuramente solida, finché si condivide veglia e sonno, si ascolta il male dell’altro e si racconta il proprio.
Alla fine di marzo ci rimasi una settimana, e la stanza - al sesto piano del policlinico - era alta, piena di luce, con due grandi finestre da cui si vedeva un digradare lento di tetti e una chiesa. Nel letto di fronte al mio c’era la signora Annamaria, con un bel viso aperto, pronta al sorriso anche se sofferente. Cominciammo a parlare di piccole cose, poi di cose più grandi, con serena confidenza, riprendendo ogni tanto il discorso.
Come avviene negli ospedali, in certe ore del giorno è tutto un avvicendarsi di infermiere, giovani dottori, assistenti a vario titolo; e un paio di volte arriva il Capo, il professore responsabile dell’intero reparto, con tutti al suo seguito, dottori e dottoresse, infermieri e infermiere. È lui - come è giusto che sia - a dispensare la parola definitiva: ti concede un tè dopo tre giorni di assoluto digiuno, ti avverte paternamente che dovrai stare con loro ancora per un po’ di tempo, o ti manda a casa. Quello è senz’altro il momento più importante dell’intera giornata. Ma ci sono ore in cui non entra nessuno. Le medicine sono state prese, le persone giacciono tranquille, leggono, riposano, trafficano col telefonino. E parlano. Riemergono ricordi lontani, si ripensa a persone dimenticate, a eventi del passato che improvvisamente tornano a sembrare importanti. Le occupazioni e gli impegni del quotidiano stanno come dietro un vetro: sono ancora lì, ma non hanno più a che fare con la tua vita attuale, che scorre nella grande stanza del reparto al sesto piano, condivisa con le amiche che il caso ti ha messo vicino. E tutte raccontano. Annamaria parla di zia Giannetta, che nacque down, ultima di una famiglia numerosa di otto fratelli. Venne collocata in un istituto, dove i familiari spesso andavano a trovarla; ma vedendo che la bambina era sempre più triste e deperiva, il padre decise di riportarla a casa, nel caldo nido degli affetti. Un compito difficile, che fu affrontato con cuore e intelligenza, sicché la piccola divenne la mascotte di tutti e crebbe sicura e circondata di rispetto e dolcezza. Alla morte del padre, se la prese in casa uno dei fratelli, il sesto («zio Giorgio, che la amava molto», precisò Annamaria) e con lui trascorse una vita tranquilla e anche insolitamente lunga.
Io ascoltavo questa “storia di vita vissuta” come una favola vera, come uno di quei racconti esemplari pieni di miracoli meravigliosi che si leggono nelle vite dei santi medievali; e mi pareva di ricevere un balsamo di gioiosa speranza, un misterioso sottile conforto. E così mi addormentai, mentre dai finestroni penetrava la luce tenue del crepuscolo, e ai nostri letti si avvicinava la notte.