Luoghi dell' Infinito > Una Madama Butterfly a New York

Una Madama Butterfly a New York

​Si possono fare strani incontri per le strade di New York, benché gli anni di epidemia abbiano impresso cupe cicatrici nella vita frenetica della città: tantissimi sono i negozi con le serrande abbassate e solo la scarna scritta “for rent” appiccicata sopra; molti sono i bar e i locali chiusi, con le insegne colorate e invitanti che pendono malinconicamente sopra vetri polverosi e interni disabitati. Ed è inutile ricordare le focacce e i dolcetti che un tempo occhieggiavano dietro vetrine luccicanti, o le mille varianti di cappuccino che solerti – anche se spesso pasticcioni – baristi offrivano con bellissimi sorrisi. Perfino Muldoon, lo storico pub irlandese vicino a casa, con il suo bancone per bevitori di birra e gli stretti divanetti, dove si gustavano ottimi hamburger e crostillanti patatine, ha gettato definitivamente la spugna.
La città è stata profondamente ferita, e ora – come molte altre volte è successo nella sua storia disomogenea e febbrile – sta riunendo le forze per riprendersi, ridare fiducia alla gente, far capire che il contatto fra le persone è ancora una componente essenziale della vita in comune, e che i negozietti-bazar di quartiere aperti 24 ore su 24 per tutta la settimana, i mitici deli, sono insostituibili.
E altrettanto insostituibili sono certi incontri. Ieri era un giorno di bellissimo sole primaverile, con un bel vento fresco, e io stavo camminando tranquilla, quando mi trovai di fronte, dopo tanti anni, Madama Butterfly. Mi si parò davanti con gli stessi abiti e lo stesso spavaldo cappello da cowboy che esibiva dieci anni fa, e subito la riconobbi, anche se i capelli tinti di rosso acceso apparivano sbiaditi e la mise giapponesizzante piuttosto sbrindellata. Quante volte l’avevo incontrata, sempre con lo stesso abito di seta sgargiante a vivaci colori (un costume di scena, sembrava), lunghi guanti da ballo accuratamente infilati, in una posa che sembrava trascurata ma era in realtà studiatissima!
Non sapevo dove abitava. La trovavo ogni tanto sulla mia strada mentre andavo a prendere il treno alla Grand Central Station. Io ero diretta alla Fordham University, lei prendeva la stessa linea ma scendeva prima, a una piccola stazione intermedia. Una volta a bordo però non la vedevo più, non era mai nel mio stesso vagone. La scorgevo solo mentre se ne andava: quasi, mi pareva, furtivamente.
Eppure cominciammo a riconoscerci, a parlare, e diventammo amiche. Amiche di strada e di conversazione, amiche di esperienze non raccontate ma che giacevano solide dentro di noi. Lei parlava di Dio, io l’ascoltavo con gioia. Non seppi mai – e mai lo chiesi – perché si vestiva così, e dove andava ogni tanto; ma mi disse subito che era ebrea, e veniva dalla Transilvania ungherese, dove aveva iniziato una promettente carriera di cantante lirica. Ma in America non era riuscita ad affermarsi, e il suo unico spettacolo era stato una Butterfly finita in un fiasco solenne. «E purtroppo sono io l’unica a ricordarmene», mi disse con un sospiro...
Poi io tornai in Italia. Provai a scriverle, ma non mi rispose (né, in fondo, ci contavo), e la sua figura sbiadì velocemente in un lontano ricordo. Oggi ci siamo riviste, come sulle sponde opposte del fiume del tempo, ma il suo sguardo vago affiorava appena, perduto in una vaga disperazione.