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Una statua per Bartali campione di fede e di sport

​«Mamma, c’è Bartali!» esclamai stupito al telefono dopo aver insolentito involontariamente il grande campione. Avevo appena alzato la cornetta quando sentii dire: «Sono Bartali!». E io invece ero convintissimo che fosse un mio caro amico, bravo imitatore, in vena di scherzi, perciò replicai: «E io sono Coppi!». Chiarito l’equivoco parlai amabilmente con l’ultimo protagonista di un ciclismo eroico. Bartali fu eroico anche durante le leggi razziali. Obbediva alla Chiesa nella persona del cardinal Elia Dalla Costa rischiando il carcere o forse peggio. Nascondeva messaggi segreti nel telaio della bicicletta e precisamente nel tubo piantone della sella. Ora Bartali è annoverato tra i Giusti delle Nazioni. Eppure la sua epopea non è finita: passa dallo sport, alla fede, all’arte, attraverso il monumento in bronzo che gli ha fatto lo scultore Silvano Porcinai.
Quest’opera, collocata a Firenze nel quartiere di Gavinana, si impone per una immediata lettura in virtù di una spontanea e vivissima presenza: quasi un lampo di un fotografo di quei tempi, un’apparizione di un eroe fiero e muscoloso che sia tornato vivo e vincitore dall’antro buio di una mitologica battaglia, agitando un mazzo di fiori. Un tubolare gli si avvinghia al petto come un tralcio di vite feconda o un serpente residuale appena sconfitto. Bartali sembra che saluti il suo popolo dal Parco dei Principi a Parigi, innalzando al cielo i segni e il profumo della vittoria. Infatti vinse due Tour de France, nel 1938 e nel 1948. Così come vinse tre Giri d’Italia e tante altre corse prestigiose.
Quest’opera mi ricorda san Paolo, che si paragona a un corridore: ha corso per il Vangelo e ha meritato la corona di gloria. Anche Silvano Porcinai è un artista da leggenda: tellurico e ispido visionario, tormentato dal furore della creazione, abilissimo affabulatore con l’argilla e col bronzo, geloso della sua arcana solitudine di artista. Semina disordine intorno a sé e ordine nelle sue opere vulcaniche di inquieta grandezza. Progenie della moderna e antica stirpe dei geniali artisti fiorentini dei secoli d’oro come Pollaiolo, l’ultimo Donatello, Pontormo, Rosso Fiorentino, Benvenuto Cellini, Piero di Cosimo. Possiede come nessun altro scultore contemporaneo il lume di luna tra le mani febbricitanti. È mosso da un ardore innato con il quale ridona alla materia inerte e greve una scattante vitalità, un’energia che si espande a vista d’occhio. Silvano Porcinai è un artista contro. Contro chi è tiepido e non è straziato come lui da un amore violento per l’arte e la vita da cui è stato ghermito, come da un’aquila in volo. Bisogna vederlo lavorare immerso nel traboccante e creativo caos del suo studio, con quale maestria domina l’aria circostante e i pensieri che lo travagliano. Gli preme rendere espressiva quella sua infuocata anima, e lo fa parlando con la scultura alla quale rivolge misteriose parole, quasi fosse una persona viva. Non si appaga mai di raccontare quella sua vertiginosa brama di scardinare dalla realtà quella sua intima essenza visionaria ed esaltante, quasi che lo fastidiassero parecchio i noiosi fatterelli quotidiani.
Lo rivedo all’opera mentre modella il monumento a Bartali. E quel piccolo prodigio che avvenne dopo una lunga sosta del lavoro. Silvano aveva in precedenza conficcato uno stecco nella creta fresca per arginare l’eventuale distacco dall’armatura, proprio sotto il polpaccio della gamba destra di Bartali. Nel tepore del nylon che avvolgeva la grande scultura, crebbe su quei muscoli una pianticella di fico. Lo interpretai, commosso, come un’indomabile vitalità di “Ginettaccio” che metteva rampolli di vita vera anche nella scultura a lui dedicata. Mi parve una felicissima metamorfosi tra volontà eroica e natura, tra un richiamo biblico, il fico, e l’agile potenza dello scalatore. La natura e la grazia sembrarono avere l’ultima parola sul brontolio di fondo che accompagnò sempre il campione: «è tutto sbagliato, è tutto da rifare!».