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Virgilio Carmignani pittore vero e santo

​Massimo Lippi

La persona e l’opera di Virgilio Carmignani (1909-1992) sono racchiuse nel­la medesima sorte, per via di una inflessibile purezza d’animo e per la santità della sua vita. L’artista toscano passa al suo vaglio, severo, ogni minima porzione della sacralità d’ogni giorno, con la piena coscienza di un uomo fondato sulla Speranza. Egli incarna la rarissima figura del raccoglitore delle grandi civiltà, dalle grotte preistoriche di Altamira, ed è il custode attento e innovativo della nostra tradizione e del poema infinito del vivere e del morire al mondo. I suoi adorati maestri sono i campi pervasi di luce intorno alla nativa Empoli, dove ha trascorso la sua vita al riparo dal frastuono delle mitologie moderne. L’opera di Carmignani unisce alla maestria del colore un’ascesi personale, che fa il paio con quella di Giorgio Morandi. Insieme alla trionfante bellezza agreste, dominata dal vago padiglione trasvolante del cielo, vi è in lui quella sua innata domanda, quel suo impulso spirituale mai estetizzante perché sempre aderente al dettato cristiano della trascendenza.
Infatti è la figura umana che lo tormenta per via d’un amore grande, illuminato, perché è l’origine e il destino dell’uomo che gli sta a cuore. Lo preoccupa la forma che prendono le persone trasfigurate nella tela, nel disegno, nel­l’affresco, per quella massa d’urto che subisce il suo cuore nei confronti della realtà e della storia. Egli imprime al suo stile una scossa tellurica che non lo appaga mai, perché vuole cogliere l’Assoluto nel transito luminoso del mistero che alberga in noi. La sua elevata indole e sottilissima di mistico del colore lo immette dentro il mondo dei poveri e dei questuanti, dipingendoli però con lampi di colore fuggitivi, come fossero preziose reliquie di un’umanità dolente e novissima. Non dipinge quel che vede ma trasfigura quel che sente. È artista di prima grandezza, perché non si discosta mai dal corpo vivo e pulsante della grande pittura. Non si concede a facili scappatoie. Non salta a piè pari la storia del suo amatissimo linguaggio espressivo. Crede che un refolo di spirito e una lisca di colore possano e debbano elevare l’anima oltre gli inganni della vita apparente. Tutto indaga e registra col suo martoriato e limpido disegno. Accentua fino al parossismo quelle sue intuizioni e le restituisce in un’austera e vibrante regia del dolore e delle verità eterne. Il suo dipingere è parco ed essenziale, calcinato di luce nei colori tratti dalla pittura murale di cui era indiscusso maestro. Si vedano le opere della chiesa dei Carmelitani presso Por­càri, Lucca (1940). Quei suoi lirici abbandoni alla potenza evocativa del colore rispondono all’assalto autentico della sua visione. La sua rappresentazione sacra è innervata nella miniera traboccante dei fatti quotidiani. Il suo forte impianto classico lo porta a ripercorrere con libertà e devozione le meravigliose opere dei maggiori artisti italiani, da Cimabue a Masaccio, da Pontormo a Fattori, del quale ama lo spartito cromatico, ma lo tempesta di insorgenze esistenziali che sono tipiche del tormentato Novecento. Si guardi la meraviglia del suo tessuto pittorico senza scantonare nella ricerca inutile e affannosa di un confronto con le avanguardie, pur legittime e importanti. Carmignani può sembrare fuori del tempo perché immerso nella sua visione assoluta.
Fu travolto dalla Seconda guerra mondiale e dalla prigionia in Germania che lo rese uno spettro, e ne portò fino alla morte le conseguenze, lui così nobile e distinto nella persona. Sapeva strutturare le sue opere con sapientissimi e calibrati toni e timbri di colore, traendo ogni figura dal magma indistinto del vivere, dall’ingorgo delle ombre, animandole con tagli improvvisi che battagliano contro la piena luce della coscienza. Questo è l’uomo e il poeta testimone e interprete dei drammi del Novecento, sorretto da un’anima di infaticabile pellegrino che scavalca i monti. Carmignani era mosso da una esigentissima onestà morale, non si concedeva un attimo di tregua, perciò le sue opere erano un campo di battaglia segnato da una continua evocazione dell’Assoluto. Nel suo tormentato candore seppe rispondere alle inquietudini della barbarie spirituale di una società che sempre più lo isolava. Rispose così, con poveri mezzi, alle domande del suo gran cuore, tralasciando tutte le cose del mondo.
L’ho conosciuto e venerato in vita e mi onoro di farne qui una modesta ma commossa e doverosa testimonianza, perché la sua voce e la sua raggiante presenza nel­l’aula di disegno dal vero risuonano ancora in me. Era un pittore santo, l’ho visto ricavare le sue opere dal suo nobilissimo dolore convertendolo in trepidante gioia. È essenziale nel suo fare, con un mozzicone di lapis è capace di dar vita a dei capolavori. Nella sua appartata grandezza ricomponeva con la vita ogni frammento delle Beatitudini.