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Zola e Manet, il ritratto come manifesto

​Aveva ventotto anni Émile Zola, otto meno di Édouard Manet, quando quest’ultimo, nel 1868, dipinse e firmò il ritratto dello scrittore, oggi custodito a Parigi, al Musée d’Orsay. È un ritratto insieme esistenziale e programmatico, quasi un manifesto degli interessi intellettuali e artistici di Zola, critico militante, strenuo entusiasta ammiratore della pittura del suo amico Manet.
Partecipe delle battaglie d’avanguardia di quegli anni, scrivendo a proposito del Salon del 1865 dal quale Manet era stato escluso, Zola, giovanissimo critico, affermava, con smagliante sicurezza: «Il posto di monsieur Manet è al Louvre, per lui come per Courbet, come per gli artisti dotati di un temperamento forte e implacabile». Non si poteva dire meglio e l’ammirazione per Manet è bene evidente nel dipinto di cui qui si parla.
Lo scrittore è rappresentato seduto al suo tavolo di lavoro ingombro di carte e di libri. Tiene aperto fra le mani un volume che tutto fa credere sia fra quelli da lui più consultati. È l’Histoire des peintres di Charles Blanc. Bene in vista fra le carte c’è la plaquette blu-cielo che porta il nome di Manet a guisa di firma e che contiene il celebre elogio di Olympia, il quadro che tanto scandalo aveva suscitato in quegli anni. Sullo sfondo, applicate alla parete, grandi stampe e fotografie sembrano vigilare, ispirandoli, sui pensieri e sul lavoro di Zola critico d’arte. Le stampe giapponesi raffigurano un paravento dipinto a motivi di uccelli e di rami fioriti e un lottatore di sumo, opera quest’ultima di Utagawa Kuniaki II (1835-1888), contemporaneo di Manet.
Per Manet come per gli artisti di quegli anni, l’arte giapponese – che prescinde dalla prospettiva rinascimentale e risolve l’immagine nel puro “à plat”, nella bidimensionale immediatezza della visione – rappresentava una novità stilistica perfettamente congeniale a un approccio alla realtà fondato – la sentenza è dello stesso Manet – sul seguente assioma: «Essere del proprio tempo è dipingere ciò che si vede».
Altre due riproduzioni abitano la parete che sovrasta il tavolo da lavoro di Zola. Una è quella di Olympia, il quadro oggetto della strenua ammirata difesa condotta dallo scrittore e testimoniata dalla pubblicazione bene in vista sulla scrivania, l’altra è la stampa tratta da Los borrachos di Velázquez. Occorre osservare con attenzione Olympia e notare le piccole significative rettifiche che, rispetto all’originale, il pittore vi ha apportato. Olympia, la donna nuda che Zola considerava il capolavoro assoluto di Manet, «l’espressione completa del suo temperamento», non ha qui lo sguardo frontale da enigmatico idolo come nella tela da cui è tratta, ma gira gli occhi verso il tavolo ingombro di carte e guarda in particolare la pubblicazione che, sotto il nome del pittore, celebra la sua gloria. Lo sguardo della donna rivolto verso Zola sembra voler esprimere un sentimento di gratitudine per quello che il critico ha fatto per lei e per il suo creatore.
Quanto alla riproduzione del quadro di Velázquez («prodigio di realtà tattile, di naturalismo denso, brutale e violento», così ne scriveva Charles Blanc, l’autore il cui volume Zola tiene fra le mani), è un omaggio alla pittura spagnola del Seicento, alle vere radici storiche dello stile di Manet. Fondamentale è stato per lui il viaggio in Spagna nel 1865. Al Prado ha studiato, per non dimenticarli mai più, i capolavori di Velázquez, quei malinconici, picareschi eroi (Pablillos de Valladolid, Menippo) che subito ritorneranno nei ritratti dal 1865-66: L’attore tragico Rouvière nei panni di Amleto della National Gallery di Washington, il Filosofo dell’Art Institute di Chicago. Di fronte «all’attore celebre ai tempi di Filippo IV» (così il catalogo del Prado nominava Pablillos de Valladolid), Manet scrive all’amico Fantin-Latour dichiarando di trovarsi davanti al più stupefacente pezzo di pittura che mai sia stato fatto.
Per Manet, Velázquez è «pittore dei pittori». Non c’è sfondo dietro Pablillos ma solo aria intorno all’uomo vestito di nero. Il lucente nero di Velázquez, un nero che contiene ed esalta tutti i neri del mondo, sarà, dopo il viaggio in Spagna, carattere distintivo della pittura di Édouard Manet. E basti citare per tutti la Fucilazione dell’imperatore Massimiliano d’Austria del Museum of Fine Arts di Boston; sinfonia di neri su neri e lampi di luce bianca sul nero, come nel Trés de Mayo di Goya, un altro capolavoro assoluto ammirato al Prado.
E ora torniamo al ritratto di Zola. È il ritratto di un giovane uomo che ci tiene a ricordare il suo ruolo – si diceva allora e si continua a dire anche oggi – di intellettuale “engagé”.
Nel dipinto le sue scelte di critico militante sono bene evidenti e il ritrattato vuole che il pittore amico dia loro immagine con quanta possibile evidenza. Del resto il repubblicano e socialista ventisettenne in posa di fronte a Manet sarà presto, negli anni tragici della Comune, insieme al suo ritrattista, dalla parte della rivoluzione.
Può darsi, come ebbe a scrivere Odilon Redon (1868), che il ritratto di Zola assomigli più a «una natura morta che all’espressione di un carattere umano» ma proprio qui, nella immagine di un uomo affidata a una presa mimetica totale, dalla esecuzione franca e generosa, emerge la rappresentazione di un destino etico e politico.
Quello a cui diede immagine Édouard Manet nell’anno 1868 è il ritratto dell’uomo che fra venti anni non esiterà a prendere partito nel caso Dreyfus, affrontando per questo la condanna e l’esilio. Il ritratto dello scrittore al quale si devono i grandi romanzi di denuncia sociale destinati a incendiare l’ultimo Ottocento europeo: l’Ammazzatoio (1877), Nanà (1880), Germinal (1885), La bestia umana (1890).

di Antonio Paolucci