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Abitare è il gesto del pane. Una vita nel dono dell’accoglienza

​Mariapia Veladiano

Della casa di Maria i Vangeli non ci raccontano nulla. Di sicuro Maria abita in famiglia quando riceve l’Angelo dell’annuncio, ma la parola casa nemmeno c’è. Prima è nominata la casa di Davide, come casato, l’appartenenza di Giuseppe. Non una parola sulla casa in cui abiterà per trent’anni dopo la nascita di Gesù. Solo un cenno (Mt 2,11) alla “casa” in cui entrano i Magi per riconoscere Gesù. Ma è Betlemme, non Nazareth.
Eppure la devozione associa in mille modi Maria alla casa. E anche l’arte. Quan­te case fanno da sfondo all’Annunciazione. A volte sono case-palazzi, case-città, come nella preziosa Annunciazione di Carlo Crivelli, tavola che chiama a raccolta l’intera bellezza del mondo. Maria è un giunco, elegantissimo profilo che si china a leggere le Scritture, mentre gli oggetti quotidiani nella stanza si trasfigurano in sim­boli: il vetro è la purezza, la candela è la fede, la pianta nel vaso è l’hortus conclusus della perfezione immacolata di Maria.
A volte invece la casa è casa quotidiana, come nell’Annunciazione di Recanati di Lorenzo Lotto, dove Maria è una meravigliosa comune incantevole ragazzina stupita e spaventata dall’evento, e con lei il gatto domestico che scappa sorpreso dal­l’irrompere del Divino nella storia del giorno comune vissuto insieme alla sua padrona. Niente colonna fra l’angelo e Maria, a significare la separazione. Dio è con noi. E la casa c’è sempre, multiforme, povera, ricca, trasfigurata, e a ragione.
Perché è probabile che Maria abbia trascorso buona parte della vita a casa, come tutte le donne del suo tempo. Gli storici ci dicono che gran parte del giorno le donne di Palestina la dedicavano al pane: pane e olive era la colazione, pane e verdure a pranzo e per cena pane, zuppa e formaggi. E a Pasqua, il pane azzimo, custode della memoria della schiavitù e della liberazione. Possiamo immaginare Maria che fa il pane e possiamo ben immaginarla condividere col suo bambino questo gesto di impastare la farina, cuocere. Possiamo immaginarla con accanto Gesù. I bambini adorano impastare. La materialità di un gesto che non si esaurisce nel gioco ma diventa cibo, cibo condiviso. Possiamo anche immaginare come il pane sia stato, nei trent’anni di vita famigliare, anche il pane donato ai poveri e agli stranieri, perché lo straniero è Dio, a volte anche in senso strettissimo, come capita ad Abramo che ricevuti i tre viandanti messaggeri «andò in fretta nella tenda, da Sara, e disse: “Presto, tre staia di fior di farina, impastala e fanne focacce”» (Gen 18,6).
La casa, insieme al pane, entra nel miracolo più parlante che Gesù compie: la guarigione della figlia della donna siro-fenicia (Mc 7,25-35). Gesù addirittura qui cambia opinione sulla sua missione. Dopo una discussione serratissima tenuta in casa, dove la donna straniera nemmeno avrebbe dovuto entrare, intorno al pane dell’abbondanza e alle briciole che possono sfamare anche chi non è invitato, cioè anche i non ebrei, Gesù dà un’apertura che non immaginava. Possiamo chiederci quanto la memoria affettiva della sua vita con Maria lo abbia potuto aiutare in questo passaggio, la generosità praticata, l’accoglienza del figlio più inaspettato, pronta a essere lei unica casa del figlio. La prima casa di un figlio è sempre il corpo di una donna. Maria è stata casa del Figlio come tutte le donne sono casa dei figli che generano. Come tante donne espulse per le loro maternità non canoniche, a volte frutto di violenza. Ma come si può?
E ancora, il pane lo invochiamo ogni giorno nell’unica preghiera che Gesù ci lascia, e il pane lo facevano le donne, e Gesù lo fa diventare divino, dono di Dio all’uomo, consegnato dalle donne all’umanità intera. Esattamente come il Figlio.
Alla fine, quando tutto si va a compiere, Gesù dice: «Io sono il pane della vita» (Gv 6,35). Pane dono di Dio, che rende casa la casa, distribuito al povero e allo straniero. L’atto più mariano, potremmo dire oggi con linguaggio teologico, restituito alla sua dimensione di materiale consistenza, è diventare pane e fare casa, casa che Maria rappresentata con il manto aperto, yurta, tenda-mondo-cosmo dei popoli nomadi, luogo dell’accoglienza. Fare casa vuol dire avere fede che la vita continua, che il futuro c’è. Che possiamo consegnarci alle realtà eterne.