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Dove abita la bellezza, dalla tavola alle arti

​Giovanni Gazzaneo

Parma è più di una città. È un sogno. Sbocciato in una terra dove la nebbia imprigiona uomini e cose nei lunghi inverni, e la calura d’estate ammazza il respiro. La Bassa padana è orizzonte per spiriti forti e sognatori.
Ho imparato ad amare Parma attraverso gli occhi di Beppe, zio di mia moglie. Contadino dell’Appennino, guardava alla città come a una “meraviglia”, anche se per nulla al mondo avrebbe rinunciato ai suoi verdi orizzonti e alla sua amata terra. Qui la gente mette radici più forti di quelle di una quercia e, se costretta a migrare, il cuore invoca il ritorno e non dimentica la lingua madre, quel dialetto gentile e musicale, ricco di sfumature, che cambia toni e accenti di borgo in borgo lungo la via Francigena.
Parma l’ho conosciuta in lunghe camminate mai paghe: quella meraviglia antica e sempre giovane, così pudica nel farsi scoprire, così discreta nell’offrire i suoi tesori, si concede solo nella fedeltà. Nulla di grandioso, nulla che abbagli. E qui sta il segreto: l’armonia dei luoghi e delle opere, questo suo essere a misura d’uomo che fa sentire a casa lo straniero.
Grazie alla sua storia infinita e al suo essere capitale, prima del ducato e ora della cultura, Parma porta all’eccellenza le caratteristiche più vere dell’Italia di provincia. Come affermava Niccolò Tommaseo: «Uno dei più grandi vantaggi dell’Italia sono le vestigia e le memorie di civiltà fresche e vive non solo nelle città grandi, ma forse più e meglio nei luoghi minori, nei quali l’antica Italia è più da riconoscere che in altri e nei quali agli occhi miei è la più sicura speranza». Parma incarna questa speranza perché ha compreso il valore dei suoi tesori, materiali e immateriali, e ha saputo custodirli per sé e per gli altri, anche grazie al dialogo, non episodico ma sistematico, tra realtà e istituzioni diverse. A partire dalla ricerca del “buono” assoluto che ha portato i suoi prodotti fino ai confini del mondo: così il pramzàn si fa Parmigiano e il parsutt prosciutto… O alla tecnologia d’avanguardia di Dallara nelle corse automobilistiche, da Indy alla Formula E. La speranza è in quel “locale” che non rinnega se stesso a favore di un “globale”, luccicante ma vuoto: qui si promuove l’unicità, si dà dignità al dialetto, si esaltano i sapori senza confonderli, non si ha paura dei tempi lunghi (dalla cura artigianale alla stagionatura dei cibi, dalla riscoperta dei cammini all’ideazione di ciclovie); là, nel non luogo della globalizzazione, le differenze vengono combattute, la lingua si impoverisce e perde sostanza e sfumature, la velocità è l’imperativo, ma è velocità senza meta. Qui identità e cultura, là fluidità e guazzabuglio.
Parma è provincia e capitale insieme, la sua apertura al mondo è inscritta nel suo dna, e in questo aprirsi a nuovi orizzonti non rinuncia a se stessa, ma offre se stessa. Sa che il custode delle tradizioni è la memoria, e non la nostalgia dei bei tempi andati: solo volgendo lo sguardo avanti (e non indietro) la storia diventa promessa di futuro e si fa vita. Questo ci insegna Parma, Capitale della Cultura in uno dei periodi più difficili della storia: si rinasce quando si è capaci di valorizzare quel che si è, a partire dal patrimonio di arti e cultura che riceviamo in dono di generazione in generazione. Non c’è amore senza fedeltà e questo i parmigiani lo sanno, almeno rispetto alla loro storia e alla loro terra. Parma è crocevia vitale di popoli e di eventi, piccoli e grandi. Quando zia Maria, sorella di Beppe, parlava di Maria Luigia la presentava come donna viva, nobile amica con cui sembrava ciciarär (parola che per suono e spessore non può ridursi a “chiacchiera”) mentre le offriva un tè e la sua inarrivabile crostata di prugne.
Ha ragione Giorgio Torelli quando dice che Parma è capitale innanzitutto per la sua gente. Gente che ama la vita tanto da aver fatto del gusto un’arte, la difficile arte di saper coniugare il buono, il vero e il bello: nella città dell’opera regna l’armonia e la stonatura non è ammessa.
Parma è l’amore infinito per la vita e la bellezza, che tutto attraversa e tutto abbraccia. In questo orizzonte fecondo l’Antelami ha trovato ispirazione per plasmare nel segno del “nuovo realismo” le umane figure dei Mesi; Correggio ha voluto aprire le cupole all’infinità del cielo; Verdi ha toccato i vertici dell’opera; il beato cardinal Ferrari ha incarnato come pochi altri le virtù evangeliche…
I parmigiani sono stati capaci di rispondere in maniera concreta e non utopica alla domanda che poneva Fëdor Dostoevskij ne I demoni: «Ma sapete, sapete voi che senza l’inglese l’umanità può ancora vivere, […] può vivere senza la scienza, senza il pane, ma soltanto senza la bellezza non potrebbe più vivere, perché non ci sarebbe nulla da fare al mondo? Tutto il segreto è qui, tutta la storia è qui! La scienza stessa non sussisterebbe un momento senza la bellezza […], diventerebbe una volgarità, e non inventereste più un chiodo». Nel vivere di gusto dei parmensi c’è un’unica, straordinaria ricetta: saper coniugare – con mani, mente e cuore – vita e bellezza.