Luoghi dell' Infinito > Editoriali > Il fascino millenario di Pavia

Il fascino millenario di Pavia

​Guido Oldani

«Nei tuoi cromosomi, ci devono essere inseriti non pochi frammenti di materiale genetico longobardo». Così mi dice a volte un amico per via del mio aspetto. Non so se abbia ragione o torto, ma questo mi viene da collegare con l’abitudine che avevo di soffermarmi un attimo sotto il “detto” stradale, in Milano, che indica la dedicazione della via a Desiderio, re longobardo. Ricordo, quand’ero adolescente, che usavo andare in bicicletta da casa mia, nel sud della metropoli milanese, fino a Pavia, capitale longobarda. Erano una trentina di chilometri, non proprio in linea retta, che ovviamente ripercorrevo nel ritorno. Transitavo per un paio di località il cui nome è legato a quell’arcaica discendenza. L’una è una piccola frazione che si chiama Beccalzù, il cui nome d’origine era Bech, che significa corso d’acqua. La seconda località è Landriano, il cui nome è di analoga derivazione. Pare che i Longobardi avessero un certo amore per la fluvialità. Dalle mie parti, lungo i corsi dei fiumi, ad esempio il Lambro e il Ticino, sarebbero state rinvenute delle tombe. L’attinenza fra queste e i fiumi non mi sorprende affatto. Mi pare infatti che l’acqua in corsa possa avere un significato augurale rispetto alla speranza della risurrezione dei morti, che verrebbero sollecitati a riprendere il percorso dell’esistenza. Una curiosità, sempre locale, è il commercio di un tipo di salume legato alla cittadina di Varzi, sempre nel Pavese. Caratterizzato da una percepibile mescolanza di chicchi di lardo e di polpa, pare anch’esso di derivazione longobarda. Conosco bene questo alimento e forse non è un caso che nell’area del pavese ancora oggi vi sia una nutrita presenza di allevamenti di suini. “Porcari” definivano i Longobardi gli allevatori di maiali e nella loro tradizione invitavano ad avere molto rispetto per questa attività, ritenuta così benefica. Ancora ho in mente, durante qualche recita oratoriana dell’infanzia, l’esclamazione rivolta al re longobardo Alboino: «Alboino se la vendetta non mi langue, berrò il tuo sangue». Tempi e costumi, quelli che vanno dal VI all’VIII secolo, che riescono a mescolare ad esempio l’edificazione di venti fra chiese e monasteri con una precisa cognizione dell’uso della spada.
Ci sono due fra le più meravigliose chiese di Pavia che la tradizione vuole di edificazione longobarda. Una è San Michele, poco distante dal Ticino e disposta parallelamente al suo corso, a una distanza dell’ordine dei cento metri. Costruita da una bella pietra elegantemente grigia e friabile, bisogna accarezzarla con una certa delicatezza se non si vuole lisarne troppo la facciata. La chiesa è circondata da vie così strette da sembrare fessure, come se non dovesse essere guardata dagli uomini, ma solo dal Padre eterno dal cielo, secondo la prospettiva divina di cui parla Florenskij nel suo modo di ritenere le icone osservate da Dio Padre. L’altra chiesa è San Pietro in Ciel d’Oro, allestita con l’intenzione di dare ospitalità alle spoglie di sant’Agostino, provenienti dalla Sardegna, la cui Arca oggi sovrasta la cripta con le spoglie di Severino Boezio, l’autore del De consolatione philosophiae, ingiustamente condannato a morte e considerato uomo di laica santità.
Desiderio, l’ultimo re longobardo, sarà sopraffatto da Carlo Magno. Ne andrà di mezzo la figlia Ermengarda, sposa di Carlo, che, ripudiata, si ritirerà a morire in monastero. Nella tragedia manzoniana dedicata al fratello Adelchi, così lei sarà descritta dal coro: «Sparsa le trecce morbide / sull’affannoso petto, / lenta le palme, e rorida / di morte il bianco aspetto». È questo “sparsa” d’inizio frase che mi riporta alla memoria l’endecasillabo petrarchesco che proprio così si chiude: «Erano i capei d’oro a Laura sparsi». Adelchi, principe erede, saggiamente fa di tutto per evitare la guerra contro Carlo Magno. Ferito a morte in battaglia, verrà portato davanti a Carlo e Desiderio, già fatto prigioniero. Pur moribondo, Adelchi rincuorerà il padre, perché esautorato non potrà più «far torto o patirlo».
Mi ricompare l’immagine di Turoldo che, al Piccolo Teatro di Milano, da solo dava fiato al coro del Conte di Carmagnola: «S’ode a destra uno squillo di tromba», ma a me sembrava che quel coro potesse essere trasferito alla vicenda dell’Adelchi. E come non paragonarlo a Ettore dell’Iliade, quando la moglie Andromaca, salutandolo prima dello scontro con Achille, lo supplica: «Né voler che sia vedova la consorte, orfano il figlio»? Ma è il destino dei grandi sconfitti che, forse, rende almeno accettabile, ai nostri occhi, l’umana storia.