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Il ritmo della consapevolezza e della nostalgia

​Robarta Dapunt


Esiste l’ombra del vento. Certamente esiste scritta nel titolo di un libro che tenni in mano alcuni anni fa, feci il tentativo di un’immersione dal sentimento contrastante tra le pagine che passano di sfumatura in sfumatura, il mistero e il dramma sentimentale. Lo comprai per il suo titolo: L’ombra del vento. Dimenticai presto il contenuto, ma non questa splendida immagine. Non la conoscevo nella sua dizione, la conoscevo nella sua visualità. Da bambina andavo alla ricerca dell’ombra del vento che si presenta tra gli alberi, nel movimento spesso lieve e ripetuto delle fronde. Mi sono sempre piaciuti i minuti prima del temporale, che muovono l’aria tra le erbe alte, la loro ombra uguale alle onde di un lontano mare che avrei conosciuto molto tempo dopo. Nei piccoli laghi che si presentano cauti dentro ai boschi invece, anche lì le acque scure e verdi spingono leggere la loro ombra verso l’alto e ritornano alla calma. Significa “calore ardente del sole” la calma, la sua origine sta dentro alla parola greca kâuma.
Calma è un’unità che si isola volentieri da qualsiasi discorso pronunciato, ama il silenzio e la lucidità della mente. Per questioni di carattere riesco a sentire la calma soprattutto quando sto all’ombra, anche quella invernale. Succede dentro alla mia consuetudine alpina una deviazione geografica, io credo di poter dire, un mare in tempesta che si cheta alla bonaccia. Il dentro diventa una pace raccolta che fluisce in una distensione del corpo così giusta da riuscire perfino a vedere meglio. Ciò significa per me, portare lo sguardo oltre la sensazione visiva, raccoglierlo all’intenzione, stringere gli occhi alla volontà di focalizzare la percezione.
Al sole ho dato poche occasioni per terminare i suoi anni luce sulla superficie del mio corpo, tendo a coprirmi molto. Scopro invece l’intensità della luce ogni volta che esco dalle montagne, in autostrada ad esempio, appena fuori dalle alture, mi rendo conto di andare incontro al senso ampio della luce ed è decisamente un avvertimento di apertura a questa donna che si limita volentieri all’ombra.
Ho imparato invece i punti illuminati dai raggi di sole, punto la mano verso i picchi dei monti intorno, allargo pollice e indice e misuro il tempo, tra un dito e l’altro le ore del giorno.
E poi la vita, o meglio, metà della vita. A cinquant’anni tra luce e ombra si è ormai definito un percorso, si è sviluppata la comprensione e si affaccia lentamente un senso di indulgenza. La disposizione dell’animo arriva a scusare gli errori e i difetti, propri e altrui. Si presenta la nostalgia, il desiderio acuto di tornare a qualcosa di ormai lontano. È un difficile sapersi l’età che avanza, non possedere è probabilmente la consapevolezza inderogabile di questa maturità.
Scelgo per questa mia riflessione alcuni versi di Friedrich Hölderlin, il loro titolo è Hälfte des Lebens (Metà della vita), li propongo a questa lettura, nella traduzione di Luigi Reitani.
In essi, la luce e l’ombra si distinguono in due strofe. Sempre la vita ha una caratura tragica, anche se sarà una vita fortunata, ogni strofa del suo tempo sarà in intima relazione con la strofa a venire, nella concretezza di una sintesi superiore. Forse.

Metà della vita
Con gialle pere scende
E folta di rose selvatiche
La terra nel lago,
Amati cigni,
E voi ubriachi di baci
Tuffate il capo
Nell’acqua sobria e sacra.

Ahimè, dove trovare, quando
È inverno, i fiori, e dove
Il raggio del sole,
E l’ombra della terra?
I muri stanno
Afoni e freddi, nel vento
Stridono le bandiere.

(Friedrich Hölderlin, Tutte le liriche, Mondadori, 2001)