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La voce dell'anima si alza nei Salmi

​Maria Ignazia Angelini

«Allora il Signore Dio plasmò l’uomo con polvere del suolo / e soffiò nelle sue narici un alito di vita / e l’uomo divenne un’anima vivente» (Gen 2,7). E così l’uomo divenne un soggetto, anelito alla vita: nephesh hayyah. Così la Bibbia presenta il sorgere della complessa realtà dell’anima. Il desiderio di vita caratterizza la condizione umana, come creatura impastata di terra e soffio di Dio. L’anima, l’umano anelare, è la radice della sua bellezza inconfondibile, della singolarità terrosa e fragile che segna la creatura più amata, solidale con ogni vita, esposta alla morte,  e fatta per Dio. Dalla gola affamata e assetata del neonato, al pianto e al riso, fino al gemito del morente, alla parola che invoca e loda: nephesh hayyah, anima vivente, è il tocco che completa l’opera divina di creazione, di elezione per grazia.
Ricettacolo e filtro di ogni ispirazione e contaminazione feconda tra interiorità ed esteriorità. L’anima – la cui sede simbolica corporea, nella Sacra Scrittura e soprattutto nei Salmi, è situata tra gola e narici – nell’umano vivente è soglia all’Eterno, e bordo dell’abisso. Grembo della parola. E i monaci apprendono i sentieri dell’anima sillabando il Salterio. Nel Salterio, “libro degli affetti”, ci immergiamo nel canto dell’anima, perla dagli infiniti riflessi. Dal primo all’ultimo Salmo s’impara il ritmo del respiro dell’anima, fino a coinvolgere ogni essere vivente: kôl ha-neshamah tehallel YAH! «Tutto ciò che respira lodi il Signore» (Sal 150,6).
Psyché zôsa / pneûma zoopoiòn (1Cor 15,45), «anima vivente /spirito datore di vita»: così Paolo riassume quel prezioso passaggio di testimone da Adamo a Gesù, il dialogo che compie la storia dei viventi. L’anima è l’anelito a vivere; lo spirito è respiro datore di vita. E Gesù diventa, attraverso la Croce, Spirito datore di vita per la nostra “anima”, che è fame e sete originaria di vita, insidiata dagli idoli.
Fin dagli inizi l’esperienza cristiana ha sostato con meraviglia di fronte all’umano vivente con una domanda: «che cosa è?» (Sal 8,5). «Un prodigio» (Sal 139,14). Il prodigio di un corpo tessuto nel grembo della terra, corpo fragile e vulnerabile, di cui l’anima è come il risveglio. E il risveglio dell’umano parte dal corpo, dalla gola. Grido, pianto, anelito, fame, ultimo sospiro: in gola è l’anima.
Che ne sappiamo, noi, dell’anima? E soprattutto cosa so io della “mia” anima, questa realtà singolarissima? Quella assoluta unicità del mio soffio, che è in me dono divino, che originariamente mi lega a Dio, ma che – essendo il cuore della mia precarietà –, io sono tentata di trattenere, come a volerla possedere, difendere, auto salvare. Ma trattenere l’anima, è morte. Nella preghiera della Chiesa, l’inizio del tempo liturgico è segnalato da una splendida antifona, tratta dal Salmo 25: «Ad te levavi animam meam…». Cosa vuol dire “alzare a Dio l’anima”? Il desiderio vitale, spoglio di ogni pretesa, orientato – in povertà radicale, quasi una nuda invocazione – verso Colui che ne è l’interlocutore più vero. Dal seguito del Salmo scopriamo che è un grido dal buio del tempo, un grido di conversione. Il nephesh è il principio vitale della persona ma anche la punta estrema della sua precarietà. È l’interiorità: dove l’essere se stessi si manifesta – per fede  – come desiderio, attesa, sete, anelito al Tu di Dio. Poi il salmista rivela che attende il riscatto: «Allarga il mio cuore angosciato». Che si tratti di aggressioni interiori o di avversari esterni, l’uscita del­l’anima – l’espandersi del respiro per aggrapparsi al Signore – è via di liberazione. «A te innalzo l’anima mia» è già il presentimento di questa via, nel buio di un’esistenza che si riconosce «povera e sola» (Sal 25,16). È il presentimento che la via della salvezza è affidarsi. Dalla lontananza dei secoli il grido dell’anima si ripercuote nel canto della Chiesa all’inizio di un tempo nuovo, “altro”, a partire dalla celebrazione del mistero del farsi carne di Dio. E da lì si rifrange nel­l’interiorità del credente. Il respiro – soffio che, da sé, «va e non ritorna» (Sal 78,39) – desidera Dio, e ancorato a lui trova libertà da ogni insidia di morte.
«A te innalzo l’anima mia». Ciò che è in me più vitale, prezioso, precario, appeso a quel “Tu”, ignoto e vicinissimo. Ecco il grido dell’anima. Misterioso inizio del tem­po dell’incarnazione di Dio.