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L’angoscia della memoria e la storia che libera

​Franco Cardini

Tra le molte polemiche abbastanza ridicole delle quali è piena la cronaca di questa nostra italica “seconda repubblica” che non riesce né ad affermarsi come tale né a divenire “terza”, quella sulla “memoria” sembra una delle più ridicole: o, se preferite, delle più patetiche e penose. Essa si articola su due piani in un certo senso contrapposti.
Da una parte, una linea di sviluppo particolarmente esiziale di quella serie di pregiudizi e di atteggiamenti che vengono ordinariamente indicati come politically correct, dopo aver provocato danni molteplici al nostro linguaggio e aver in vario modo offeso la nostra intelligenza sembra essere sfociata in quell’epidemia della damnatio memoriae postuma e generalizzata che è la cancel culture. Se l’antica pratica del cancellare iscrizioni e rovinare monumenti dedicati a un qualche potente che la storia aveva screditato era comprensibile immediatamente dopo la sua morte o la sua caduta, il buon senso e il rispetto per quello ch’era comunque avvenuto consentivano che, passato qualche anno o qualche decennio, anche le tracce di personaggi o di periodi ritenuti in generale non fausti venissero tollerate (e ciò vale per l’ancien régime nella Francia postrivoluzionaria, per certi simboli del regime fascista non privi di valore artistico e così via). Ma negli ultimi tempi sembra essersi sviluppata una tendenza alla “pulizia memoriale” attraverso la quale si pensa che i popoli dovrebbero recuperare la loro verginità morale abbattendo ogni simbolo considerato negativo. Così, nel continente americano, si sono abbattute le statue dedicate al “razzista e colonialista” Cristoforo Colombo: e il contagio sembra andato oltre, fino a lambire i memoriali di patres patriae quali Washington e Bolívar.
Dall’altra, nel nostro Paese la valutazione del passato recente - visto che non siamo riusciti a raggiungere l’utopia di una memoria condivisa - si è negli ultimi anni curiosamente sdoppiata in una sorta di doppio cammino (che dovrebbe essere complementare ma in realtà è contrapposto) percorso alla luce di una grottesca schizofrenia malamente celata dietro l’artificio semantico di termini parasinonimici. Da un lato si è canonizzata la celebrazione della Shoah nella Giornata della Memoria del 27 gennaio; dall’altro però chi in essa ha visto celarsi l’artificio della condanna non di un evento orribile e odioso, bensì di una tendenza politica (“di destra”) che lo avrebbe determinato, ha preteso di ottenere un giorno memoriale più adatto alle sue esigenze, e ha organizzato una Giornata del Ricordo, il 10 febbraio, destinata alle vittime delle foibe. Insomma, un’assurda contrapposizione tra le vittime della follia nazista e quelle della ferocia dei comunisti sloveni (appoggiati, sembra, da alcuni italiani), che ha consacrato l’odio e la faziosità anziché metterli entrambi a tacere nel nome di una riconquistata consapevole concordia.  
Ma è appunto in tale or ora menzionato valore che risiede la storia: la quale, sempre e comunque, non consiste nella supina e fatalistica accettazione del passato, ma nella sua comprensione profonda, non già nel senso di giustificazione morale bensì in quello di acquisizione della consapevolezza di un processo causale in grado di saper distinguere il differente valore delle scelte compiute e di riuscire a procedere, nel futuro, verso scelte migliori. La storia, attraverso l’analisi di eventi, di istituzioni e di strutture, ci libera dall’angoscia della memoria che, lasciata a se stessa, dissolve il passato in una nebbia indistinta o lo fa rivivere nella dicotomia psicotica delle opposte passioni. Solo la lezione della storia purifica la nostra memoria (parola che, derivando da mens, si rivolge alla nostra intelligenza) e il nostro ricordo (termine che, derivando da cor, chiama invece in causa i nostri affetti e le nostre passioni). La storia aborre l’amnesia e stempera rimpianti e rimorsi; valuta correttamente il passato alla luce della coscienza della nostra libertà di agire e della responsabilità delle nostre scelte. Non esprime giudizi inappellabili: non è, se non in senso traslato, un tribunale. Insegna a scegliere, non a esaltare né a condannare; e, in quanto scienza dominata da una sua intrinseca dinamicità e capace di perfezionarsi, non è mai assoluta. La storia non pronunzia mai nessuno dei due contrapposti avverbi “sempre” e “mai”: non è né mistica, né metafisica. Gli Osanna e i Crucifige non le appartengono.