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Monachesimo, una porta aperta al mondo

​Mauro Giuseppe Lepori*


Cosa significa o deve significare essere monaci oggi? Tutte le forme di vita monastica se lo chiedono, come sospese fra la loro antica tradizione e un “oggi” che sfugge verso un futuro incerto, spesso scrutato come fra banchi nebbiosi di pessimismo. Non di rado, un’eccessiva preoccupazione di attualizzare il monachesimo distrae i monaci e le monache da un riferimento vivificante con le loro radici.
Quanto più medito i testi fondatori della vita monastica cristiana, come per esempio la Regola di san Benedetto, tanto più mi sorprende la loro attualità. Anzi, mi sorprende la loro maggiore attualità rispetto alle nostre pretese attualizzazioni. È come in un albero: i rami, la scorza, le foglie e i frutti sembrano più attuali, più contemporanei che le radici, eppure invecchiano e decadono prima delle radici. Se non ci fosse una vitalità permanente delle radici, l’albero non sarebbe che detrito fatiscente.
Le radici della vita monastica, come le radici di tutta l’esperienza cristiana, sono sempre più attuali di noi, corrispondono all’oggi più di quello che inventiamo al momento, o che cerchiamo di fare per aggiornare il nostro carisma, la nostra vocazione e missione. Questo, per una ragione molto semplice: sono opera di Dio, un dono dello Spirito, una grazia che la sollecitudine eterna del Padre dona alla Chiesa e al mondo per attualizzare l’avvenimento di Cristo; meglio, per attualizzarsi nell’avvenimento di Cristo.
Dio, evidentemente, non riserva la freschezza della sua grazia a un tempo del passato. Ogni carisma è un dono che Dio non si riprende mai, e che rimane come una sorgente aperta. Il problema è che spesso, nell’affanno di scavare sempre nuovi pozzi a ogni tratto del nostro cammino nella storia, dimentichiamo di bere alla sorgente, oppure impediamo allo Spirito di far sgorgare nuove sorgenti.
Se c’è una caratteristica della vita monastica che va attualizzata con particolare urgenza di fronte al bisogno dell’uomo d’oggi, questa è l’esperienza di unità della vita che la preferenza di Cristo rende possibile. Più concisamente direi che il significato più importante che i monaci dovrebbero avere nella Chiesa e nel mondo d’oggi è l’esperienza che l’unione con Dio unifica tutto, tutta l’esperienza umana, quella che tutti vivono soffrendo di una frammentazione in cui il cuore nel suo desiderio di significato non trova pace. La vocazione monastica dovrebbe essere concentrata sulla coscienza che Gesù Cristo è il significato centrale e totale di tutto, e nella testimonianza che irradia con umiltà e letizia la bellezza di una vita che abbraccia tutto abbracciando il Signore.
Anche i monaci e le monache hanno sempre meno possibilità di “fuggire il mondo”, come si diceva un tempo, cioè di astrarsi e proteggersi da tutto ciò che distrae tutti, basti pensare alla cultura informatica. Ma questo può essere un’opportunità per riscoprire la potenza unificante della comunione con Dio e i fratelli che in Cristo ci è offerta.
San Benedetto chiede che i monaci «non preferiscano assolutamente nulla a Cristo» (RB 72,11), ma questo non gli impedisce di mandare i monaci a esercitare questa preferenza unificante in tutti gli ambiti dell’esperienza umana: la preghiera, il lavoro, la vita fraterna in ogni aspetto e frangente, il riposo, l’esperienza della forza e della fragilità. Tutta la vita diventa palestra di umanità unificata da Cristo nel progetto originale del Padre che lo Spirito Santo sempre rinnova nella Chiesa e tramite la Chiesa.
Per questo non mi stanco di ammirare e proporre a me stesso e agli altri quella che, con il passare del tempo, scopro essere la figura più matura e più riuscita di monaco che san Benedetto descrive nella Regola: il portinaio del monastero. In quello che doveva essere l’ultimo capitolo della Regola, prima di alcuni capitoli aggiunti successivamente, san Benedetto chiede che «alla porta del monastero sia posto un anziano saggio, che sia capace di ricevere e di dare una risposta e la cui maturità gli eviti di dissiparsi. Questo portinaio dovrà avere la sua cella vicino all’ingresso, in modo che chi viene lo trovi sempre presente a rispondere. Appena qualcuno bussa, o un povero chiama, gli risponda: “Dio sia ringraziato!” o: “Benedici!”, e con tutta la mansuetudine che il timore di Dio ispira, si affretti a rispondere con il fervore della carità» (RB 66,1-4).
Questo monaco ha la maturità dell’anacoreta cresciuto in comunità ed è nello stesso tempo come un frutto maturo di carità che si lascia mangiare e gustare da tutti, a partire dai poveri, senza perdere consistenza e sapore. È un po’ come viene descritto san Paolo nell’ultima scena degli Atti degli Apostoli: «Trascorse due anni interi nella casa che aveva preso in affitto e accoglieva tutti quelli che venivano da lui, annunciando il regno di Dio e insegnando le cose riguardanti il Signore Gesù Cristo, con tutta franchezza e senza impedimento» (At 27,30-31). O come san Serafino di Sarov che nell’ultimo periodo della sua vita apre la sua cella per accogliere tutti chiamandoli: «Mia gioia!». Il mondo ha bisogno di questo dalla vita monastica. Ma anche la vita monastica ha bisogno di questo contatto con il mondo, con la folla delle genti, da accogliere con gratitudine a Dio e non con un atteggiamento di difesa di presunti “valori monastici” chiusi su se stessi, e di fatto inesistenti.
Per questo la vita monastica deve anche recuperare la pazienza di un’educazione esigente, silenziosa e comunitaria alla maturità cristiana dell’umano, che è la gioia trinitaria di donare la vita nell’accoglienza dell’altro.

*abate generale dell’Ordine Cistercense