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Quando il Mediterraneo era il cuore del mondo

​Antonio Musarra

«Che cos’è il Mediterraneo? Mille cose insieme. Non un paesaggio, ma innumerevoli paesaggi. Non un mare, ma un susseguirsi di mari. Non una civiltà, ma una serie di civiltà accatastate le une sulle altre». Per Fernand Braudel, decano degli storici mediterraneisti, il Mediterraneo è stato ed è, soprattutto, un crocevia di culture, in cui «da millenni tutto confluisce, complicandone e arricchendone la storia». A maggior ragione, il Mediterraneo medievale è un mare eminentemente plurale, capace di mondi contigui: v’è un Mediterraneo greco, un Mediterraneo latino, un Mediterraneo arabo, un Mediterraneo ebraico, e chissà quanti altri.
Il Mediterraneo, insomma, è dotato d’innumerevoli identità, le quali partecipano, però, della medesima «economia-mondo», in grado di parlare una lingua comune e di travalicare le diversità. Del resto, le molteplici sponde del Mare nostrum non godono, forse, dello stesso orizzonte? Di un orizzonte in cui le messi color giallo paglierino e le verdi fronde d’olivo si agitano al vento, e i colori della vite si mescolano a quelli dei tramonti. Assumendo, talvolta, tinte rosso sangue. Luogo d’incontri e contaminazioni, il Mediterraneo dei secoli centrali del Medioevo è anche, e soprattutto, un luogo di aspri scontri. Potremmo dire, un luogo di frontiere. Ma di frontiere porose. Non a caso, le sue coste pullulano di approdi, cale, rifugi, aree di attracco, scali organizzati per la navigazione di cabotaggio, porti veri e propri, inseriti o meno in contesti urbani o periurbani, dotati d’impianti e infrastrutture: arsenali, darsene, banchine, cantieri, dogane, fondaci, fontane, logge, magazzini e depositi per le merci – in particolare, per i cereali e il sale –, moli, torri e fanali di segnalazione, e poi ricoveri e taverne per il ristoro degli equipaggi, capanni per la riparazione navale, botteghe specializzate per l’acquisto di attrezzature, e così via. Luoghi diversi l’uno dall’altro. Accomunati dal fatto di costituire dei formidabili punti di raccordo fra la terra e il mare.
In stretto rapporto coi centri abitati, di cui, talvolta, sono parte integrante, tali luoghi assumono fisionomie diverse: scali strategici lungo le rotte di cabotaggio o di peleggio si alternano a enclave militari deputate alla difesa costiera e a poli di smistamento o di redistribuzione delle merci, necessitanti di banchine ben sviluppate e di fondali profondi, atti ad accogliere navi sempre più imponenti.
Amalfi, Pisa, Genova e Venezia sono luoghi di questo genere: crocevia di scambi; porte d’ingresso; varchi di comunicazione aperti verso il mondo. E, pure, ciascuno di essi possiede caratteri propri. Amalfi, arroccata al centro della Costiera, sviluppa precocemente la propria capacità armatoriale. I suoi mercanti, eredi della tradizione nautica bizantina, sono stanziati dappertutto; quantomeno sino a che l’emergere di altri porti – Bari, Brindisi, Otranto, Taranto, Messina, Milazzo, Palermo, Catania, Vietri, Napoli… – giunge a tarparne le ali. Pisa, dotata d’un sistema portuale fluvio-lagunare e di un porto marittimo collocato a poca distanza, esprime, sin dall’XI secolo, il proprio desiderio di egemonia nel contrasto alla marineria saracena, salvo soccombere, nel tardo Duecento, di fronte alla consorella tirrenica: Genova, vera e propria “città-porto”, in cui la compenetrazione tra le strutture portuali e la crescita del tessuto urbano – con i fondaci che s’insinuano nell’abitato – è qualcosa di profondamente tipizzante. Liberatasi della rivale, la città estende le proprie maglie da Oriente a Occidente, sfidando colei che, sola, può tenerle testa, Venezia, la città ch’è tutt’uno col mare, e che, però, col mare ha un rapporto contraddittorio: dai flutti, i suoi abitanti traggono il sostentamento; sui flutti sorgono le loro abitazioni; i flutti, tuttavia, potrebbero causarne la rovina. Il confronto tra le due marine caratterizzerà gli ultimi secoli del Medioevo, sopendosi – si può dire – soltanto a Lepanto, di fronte a quello ch’è, ormai, un nemico comune.
Amalfi, Pisa, Genova e Venezia – ma il discorso vale per altri centri minori – sono le protagoniste della ripresa dei traffici mediterranei, i cui prodromi possono leggersi già in quel X secolo costellato d’attacchi saraceni, ungari e normanni; soprattutto, esse hanno il merito d’aver rimodellato quell’unità economica che l’Impero di Roma aveva garantito, a lungo, al Mare nostrum. Al contempo, sono all’origine di quella “rivoluzione nautica” che, a seguito di ripetute sperimentazioni, avrebbe ampiamente facilitato l’incremento delle comunicazioni tra una sponda e l’altra del Grande Mare, e oltre. L’uso della bussola, di portolani, carte nautiche e tavole di navigazione; la costruzione di scafi più capienti; l’utilizzo di legnami differenti a seconda degli elementi costruttivi; l’introduzione di accorgimenti tecnici quali l’adozione del timone unico incernierato a poppa in luogo o in associazione ai remi laterali, e la compresenza di vele quadre e vele latine, atte a favorire la manovrabilità di navi di grande tonnellaggio e di galee sempre più grosse, così da rispondere alle più varie situazioni di vento: sono, questi, gli elementi di un’autentica “rivoluzione”, capace di modificare, progressivamente, il panorama nautico del tempo. E con esso, il panorama dello stesso Mediterraneo.