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Qui viene al mondo il realismo terminale

​Guido Oldani
Il mio luogo, al bordo della metropoli milanese, era fatto di pioppi, salici e sambuchi. Vi volavano merli, passeri e qualche usignolo; il verde dei campi era bucato dal rosso dei papaveri e dal bianco delle ali della farfalla cavolaia. Tra il granoturco, presso il fiume, zampettava qualche fagiano e le lepri si davano alla macchia. Naturalmente non mancavano i topi e neppure qualche vipera, ma non ci facevano paura, perché l’irresponsabilità era sempre sovrana. Nuotare, una piscina chi mai l’aveva vista, s’imparava nelle rogge e nei canali. Ogni agosto, regolarmente, annegava uno di noi ragazzi. C’era pure, come anche oggi, un castello quattrocentesco che serviva da prigione, oggi da ritrovo degli anziani. Stavo per dimenticare la bolla pontificia cinquecentesca di Pio IV, un documento controcultura e contro l’odio e alla faccia di quanti distinguono quel che si deve perdonare e quello che no. Decennio per decennio, passo passo, i prati sono diventati quartieri, le strade asfalti, la nebbia è sparita, l’aria ha incominciato ad assumere vari odori e le fontane diversi colori. A dirla così sembra un fumetto, in realtà c’è solo il fumo, come se ogni cosa dovesse gettarne nell’aria la sua parte. Anche i treni viaggiano a trecento chilometri all’ora e, tra fari e lampioni, la notte è diventata un giorno rasoterra. Chi aveva una casa, nel giardino vi lasciava costruire un palazzo, poi innalzava di qualche piano la propria dimora. Pure il cimitero si è allargato ma non troppo, la cremazione ha ridotto i volumi, la longevità rinvia l’aumento dei defunti lì domiciliati. Quella che un tempo si chiamava periferia si è trasformata in una banlieue. La mia vietta è stretta, breve e a fondo cieco. Chi, per errore, vi si infila in auto avrà il suo bel daffare con la retromarcia, a rischio e pericolo di grattare un muro o peggio travolgere una carrozzina. Lasciamo le finestre a piano terra spalancate, così tutti vediamo a vicenda questo girone d’inferno in cui nessuno, e mai, potrà fare l’inventario degli oggetti contenuti, in orgogliosa mostra. Eccoci dunque metropolitanicamente accatastati, intrecciati come i fili di una stoffa, in un’atmosfera che non si sa se sia folle o di divertimento; pure sento il canto del cuculo, a volte la cornacchia e anche un isolato merlo, mentre i piccioni esercitano il loro strapotere canoro tubando implacabilmente tutto il giorno e sporgendo dalle grondaie la coda verso il centro della strada, senza riguardo di alcuno, con le loro deiezioni. Quella che un tempo avremmo definita una babele paralizzata, è invece una premessa del futuro. Due su tre siamo ammucchiati nelle città ed è sempre più difficile distinguere un essere umano da una suppellettile. Io che so parlare il dialetto milanese, saluto sempre per primo, se posso, l’islamico che incontro o l’africano, il cinese o l’ucraino. Pian piano ci salutiamo tutti e la mia lingua italiana si schematizza sempre di più per essere plastica verso questo melting pot. Sono loro che fanno nascere i bambini e io svicolo fra le carrozzine, facendo ciao ciao. Gli oggetti stanno così a ridosso della natura che questa ha preso a somigliargli (nasce la similitudine rovesciata). Qui c’è un tale che è identico a un lampione e un cane randagio che pare una valigia; le ragazze hanno occhi grandi come fanali di motociclette. Anche il cielo è una coperta e la notte è come un sole ingessato totalmente per una frattura. Abbiamo incominciato a tracciarci sul corpo dei tatuaggi. È per rendere omaggio al fatto di essere schiacciati e somiglianti agli oggetti: evviva dunque le loro impronte su di noi. Questa è la condizione ormai planetaria; se nel secolo scorso, verso la metà, la poesia parlava di stare nelle cose (singolarmente, in re), si è poi passati a starvi davanti (ante rem), rendendole dei significanti senza significato. Ma col millennio terzo – ecco il mio contributo alla letteratura in qualunque lingua – rispetto agli oggetti noi siamo passati “sub re”, sotto di loro, premuti e somiglianti ad essi, come tutta la natura del resto. Sì, la natura, la più pura, è quella che vedo nella pubblicità televisiva di un modello automobilistico: l’auto è un angelo nel paradiso terrestre. Del resto anche la guerra trasforma la natura in un artefatto.
Infine, se voglio godermi la naturale linea dell’orizzonte, salgo sul tetto e vedo lo sky line, in pieno Realismo terminale.