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Un popoloso deserto chiamato città

​Maria Antonietta Crippa


Parola importante nella storia della Chiesa, “deserto” identifica ambiti terrestri poco piovosi, caratterizzati, ancor più che da assenza di vita, da mancanza di intervento umano. Il deserto è un componente in un certo senso misterioso dell’ecosistema terra. Non si comprende con immediatezza la necessità della sua vasta estensione nelle tre varianti di deserto caldo, freddo, polare. Eppure, dicono gli scienziati, esso risulta indispensabile. D’altro canto, la sua estensione a perdita d’occhio e il silenzio che lo abita hanno scatenato una iridescenza di significati esistenziali, positivi e negativi, di cui la Bibbia dà ampia testimonianza.
Oggi si discute molto su limiti e condizioni da mettere in conto per abitare il pianeta rispettandolo, ma non si è ancora pervenuti a conseguenze operative efficaci. Negli ultimi due secoli abbiamo invaso la terra quanto più ci è stato possibile. Nell’Ottocento con pieno ottimismo nelle nostre capacità di trasformare il mondo migliorandolo, facendolo passare da un primo livello naturale a uno artificiale, quasi fosse una seconda e più alta natura. Lentamente nel Novecento si è compreso che abitare e costruire vengono da noi coniugati, tramite il progresso tecnologico, con capacità inventive e innovative declinate secondo una razionalità di tipo solo logico. La ricerca di un umanesimo di nuovo conio, aperto a una razionalità di più ampio respiro – promosso da una piccola ma qualificata avanguardia al seguito di papa Francesco – non è ancora divenuta esigenza condivisa. A questo livello tornano d’attualità il deserto e la saggezza che ne riconosce il valore esperienziale.
Dalla seconda metà del XIX secolo si è ripetuta la formula dell’inglese William Morris (1834-1896): «Non possiamo sottrarci all’architettura finché facciamo parte della civiltà, poiché essa rappresenta l’insieme delle modifiche e alterazioni operate sulla superficie terrestre in vista delle necessità umane, eccettuato il puro deserto». Se così stanno le cose, è impossibile sottrarci alla configurazione fisica della nostra civiltà che erode ogni deserto, a meno di una “conversione” della stessa civiltà che includa, nel proprio orizzonte, necessità umane trascurate, costruzioni limitate in orizzontale e in verticale, custodia comune dei luoghi non costruiti da noi, duri e inospitali ma non ostili, come i deserti.
Non si tratta dunque solo di porre limiti; occorre anche affrontare le domande più radicali inscritte nella nostra condizione umana e rendere familiare il deserto dove queste domande non hanno vie di scampo. Ma quest’approdo, in paradossale contrasto con ciò che in noi è vitale esigenza di agire, non è destinato all’insuccesso? Qualcuno ha precorso, negli ultimi due secoli, il rischio proprio di questo cammino? Balzano in primo piano alcuni grandi e umili uomini, pionieri di un’esperienza che, probabilmente, attende tutti. Già nel XIX secolo Charles de Foucauld (1858-1916), mostrandosi ai tuareg come “Carlo di Gesù” in costante contemplazione, fece sbocciare in Europa un’attrattiva per la pace e il silenzio lì ritrovati, dagli esiti sorprendenti. Senza conoscere de Foucauld, Carlo Carretto (1910-1988) ne divenne seguace. Era stato agitatore di folle, nel deserto divenne generatore di comunione che, a Spello presso Assisi, lo porterà a fondare un eremo. In occasione di un suo viaggio a Hong Kong, un giovane, impedito a muoversi ma affascinato dalle sue Lettere dal deserto, gli chiese un libro che lo aiutasse a vivere in città quel deserto radice di comunione universale. Quello stimolo fu profetico. Fra i molti che portarono e portano questo fecondo deserto nel cuore agitato delle città del mondo, sempre più grandi e informi, ricordo qui almeno Madeleine Delbrêl (1904-1964) che seppe viverlo nel mondo operaio dominato dal marxismo ateo, e Thomas Merton (1915-1968), il monaco trappista che ne ritrovò senso e imprescindibilità nei Padri del deserto e nell’assimilazione della loro esperienza alla vita monastica con Benedetto da Norcia. Emerse così la sua sfida all’Occidente tecnologico che gli fece dire: «Quale vantaggio può venire dal salire sulla luna se non siamo in grado di attraversare l’abisso che ci separa da noi stessi?». Il deserto non è meta bensì passaggio dopo il quale è più facile affermare che Dio abita in città, se noi lo vogliamo ascoltare.